L’ipotesi perversa II
[Qui la prima parte].
Questi («ma chi?… i “cittadini”? i “consumatori”? i “lavoratori”? gli “utenti”? i “pro-sumer”?») non sono dei sentimentali (niente tragedie, sacrifici, violenze, paure, sacralità, Girard, Hobbes…), ma dei goduriosi (che godono per conto terzi senza venire mai, fingono grottescamente di godere o, dato che sono finzioni essi stessi, è di questo che godono)… governano coi tasti “mi piace” e “condividi”… La macchina statale s’è fatta social. Ci aderisce per trasparenza, come un layer sovrapposto personalizzato, ci fotoritocca, ci sottopone al riconoscimento facciale, ci simula…
…una palpatina, una molestia, un insulto, un furto d’identità, un drone con cannoncino… Non si incarcera e non si uccide più: si banna (occultando le spiacevoli conseguenze di cui sopra che di tanto in tanto riemergono come snuff…).
Le telecamere piazzate un po’ ovunque sono per voyeurismo simulato non per controllo… Alla lunga ci si stanca pure a sorvegliare o sorvegliare diventa impossibile (addio Foucault e Deleuze) e si ricorre ad algoritmi interpretativi, macchine predisposte all’eccitazione. L’importante è (far) godere dell’attimo intenso in cui viene ripreso l’atto sanzionato dalle leggi-LOL. Possibilmente sgranato e fuori fuoco al punto giusto… con un tocco di mistero… qualche pixel di desiderio da aggiungere (voglia di hi-res, HQ, iconcine animate, loop). Il massimo sarebbe riprendere alieni, mostri, zombie, vampiri, mutanti… erotizzerebbero anche l’orrido… anzi, l’hanno già fatto.
Un capitolo a parte meriterebbero le simulazioni audio (musica, colonne sonore, muzak, jingle, suonerie, bip, etc…). Ma ci sono anche odori, superfici tattili, sapori… tutto concorre a renderci una finzione (“ciò che viene plasmato”) adeguata al modello perverso totalitario… Il brutto è che alla perversione sembra che non si sfugga se non a costo di disordini schizofrenici… di distruzioni strutturali. Io stesso parlo a partire da una posizione “perversa”. Non c’è un’origine pura… Non sto predicando come un Ezechiele biblico. Tutto ciò è preziosa conoscenza… da utilizzare eliminando (rendendo ancora più astratto e inefficace) il Terzo che gode al posto della finzione che siamo o moduliamo. È la sola follia (“gnostica” e dualista senza trascendenza) che vorrei.
Dal “perverso polimorfo” al feticismo fuori standard
Non ci sono che “oggetti parziali”… e sarebbero da mettere in relazione anomica (anti-identitaria, deterritorializzata, dividuale, modulare, ricombinabile) tra loro, con degli spartiti variabili che modulino produzione e consumo senza troppe dilazioni, tramite accordi politico-economici dividuali, rendendo progressivamente inutile e inefficace il Tutto (il fantasma d’Origine, il Padre Immaginario, l’Immagine del Corpo, la Persona, la Grande-Testa-fabbrica-organi) che li avrebbe parzializzati.
Non si capisce?… Non fa niente. Avete già afferrato abbastanza.
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Mani occhi testa bocca tetta piedi figa cazzo culo… il “perverso” qualcosa (per esempio mangiando con gli occhi, mantenendosi al di qua del cannibalismo) afferra e incorpora (come “antropologicamente” suggeriva un bellissimo capitolo, “Afferrare e incorporare”, di “Massa e potere” di Elias Canetti che sembra coinvolgere chi legge in una lotta corpo a corpo tra cacciatore e preda)… c’è solo qualcosa…
…che si stacca dal fantasma totalitario (pur necessario, ma solo come fantasma, a mantenere una sorta di equilibrio non solo psichico) dell’immagine del corpo. Diversamente, cosa più che comprensibile, ci si rifiuta di camminare e di collaborare pur di non sorreggere l’eccitazione erettile… le gambe cedono… ci si rannicchia come pupetti, irrigiditi come catatonici. Politica decisamente più intransigente e in accordo con le più potenti devastazioni cosmiche, ma del tutto immobile, negatrice anche di quel poco che ci anima in quanto animali o animazioni cinematiche…
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Com’è l’amore tra “falsi sembianti”?
Si ama per riconoscere (ri-presentare) la propria e l’altrui immagine allo specchio, per proteggerla dall’abisso di “nulla” (di incoscienza, di “non Io”) che quella sostituisce, tracciando approssimativamente o marcando dei segni (un corpo, un volto, una bocca, un occhio, un seno… penso al trucco, alle statue greche colorate, alle ragazze divinizzate, alle divinità divenute umane, al porno… una pantomima che nasconde il vuoto… giusto gli Aztechi, quando spellavano vive le vittime sacrificali e se ne vestivano, potevano indicare qualcos’altro, di più orribile, di irriducibile alla coscienza, che giace nel mezzo della carne e delle cellule che muoiono e si rigenerano più volte durante una vita).
Ovvio che sia molto meglio gioire perversamente dei dettagli, delle parzializzazioni che siamo… delle intensità ibride intagliate sul vuoto, sulla vertigine, sulla confusione… ma quella paura resta sul fondo di ogni ritaglio… di ogni angolino tranquillo che ci si ritaglia per far circolare delle intensità.
Ecco, le intensità… i -getti nei sog-getti… schizzi di nessuno… inorganico che sprizza… Chi mai può pensare di mettere tutto ciò in un recinto, in un serraglio? Non siamo capi di bestiame, caro capitalista… né vi è pro(i)stituzione ab origine. Non tutte le nostre membra sono organiche al tuo organico.
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Fonmaentadmlente caiapmo l’izinio e la fnie delle praloe
Stessa cosa dei corpi (da capo a piedi o tra capo e coda) e delle case (tra porta e finestre). Il contenitore viene intuito fantasmaticamente prima delle parti. Ma sono le parti ad essere più del tutto. Non ci sono che parzializzazioni e feticci (anche svincolati dal tutto).
Le intensità semplici (es. quelle individuabili, contenibili tra inizio-fine) fanno il gioco della forma complessiva.
Solo le intensità complesse non si lasciano sussumere e comprendere dalla forma complessiva.
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15/03/2014
Ci voleva Lyotard stanotte (causa insonnia… Capitolo “il Negozio” di “Economia libidinale” in cui tratta della cerchia dei sapienti-froci-guerrieri greci che avevano costruito il centro della polis e il loro pregiatissimo “logos” su di un grande zero, a forma di moneta, per tutti coloro che erano fuori dal cerchio – stranieri e donne compresi – o a forma di buco di culo, annullatore e appagatore dei loro bisogni) per farmi notare come l'”ANello” fosse un “piccolo ANO”… Anche la “collANA” magari, con un calibro più grosso, proviene dalla stessa ANALogia…
Egli vedeva inoltre, nella tensione e nella scarica, le potenze che attraversano la banda pulsionale (con un solo lato, senza un interno ed un esterno, come il nastro di Moebius)… Figura del polimorfo su cui si innestano i vari oggetti parziali… alcuni dei quali forniscono lo spunto per i deliri totalitari che Lyotard tanto detestava (che nell’antica Grecia sono appunto incentrati sull’ano, sulla pulsione sterile che azzera gli scambi e scarta l’eteronomo e il barbaro). Anche io sono della stessa opinione…
Per non parlare dei giochi di parole tra “annullare” e “anulare”…
L’idea che la “culla” della civiltà occidentale fosse in realtà un “culo” è assai comica…
08/05/2014
Il carry trade, il godimento dei differenziali di titoli e divise monetarie intorno al Grande Zero (orrido e attraente insieme… buco nero, buco di culo). L’intero sistema capitalista fa il surf su quest’onda… C’avevano visto giusto i Butthole surfers…
Hanno solo imitato la “natura”… questa morte-che-vive piazzata dentro ogni vivente… sabotata, bistrattata, scongiurata, esorcizzata, crocifissa, surrogata da suoi simulacri depotenziati…
La voce è stata pubblicata il 12 febbraio 2014 da Valerio Mele. Archiviata in Uncategorized con tag -getto, a-linguistica, accordi politici in/dividuali, aforismi, amore, analogica, anomia, anti-identitarismo, anti-universalismo, antropologia, arte, castrazione, catatonia, cinema, complessità, contenitori di contenitori, corpo de-capitalizzato, corpo proprio, corpo-in-frammenti, de-capitalismo, de-territorializzazione, Deleuze, democrazia totalitaria, dio, dividuo, divisione del lavoro, economia libidinale, Elias Canetti, feticismo, Foucault, Grande Macchina, Hobbes, immaginario, ipotesi perversa, Lacan, Lyotard, macchine, musica, Muzak, persona, perversione, porno, pro(i)stituzione, psicanalogica, rapporto/relazione, relazione, René Girard, ricombinazione, sensologia, simulacro, simulazione, sistema/insiemi, snuff polity, social network, società del controllo, società dello spettacolo, sog-getto, specchio, stato, sussunzione, Tutto, violenza, virtuale.
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Cito:
Afferrare e incorporare.
La psicologia dell’afferrare e incorporare – così come quella del
mangiare, in generale – è ancora completamente inesplorata; in
quell’ambito tutto ci sembra perfettamente ovvio. Vi si manifestano
tuttavia molti fenomeni enigmatici, ai quali non pensiamo mai. Fra le
nostre azioni non ve n’è una più antica dell’afferrare e incorporare; non
si è ancora sottolineato abbastanza quanto, in essa, abbiamo da spartire
con gli animali.
L’avvicinarsi di una creatura a un’altra verso la quale nutre
intenzioni ostili si articola in diversi atti, ciascuno dei quali possiede un
particolare significato tradizionale.
Innanzitutto, lo “spiare” la preda: essa è spiata assai prima di
accorgersi delle nostre intenzioni. Viene notata, osservata, sorvegliata
con un senso di soddisfazione e di compiacimento: mentre ancora è
viva, la si considera come un pezzo di carne, così intensamente e
irrevocabilmente che nulla potrebbe distogliere dal catturarla. Durante
tutto questo periodo, mentre le si gira intorno, già si sente quanto essa
appartenga a qualcuno; dall’istante in cui è designata come preda, essa
nel pensiero viene già incorporata a qualcuno.
Lo spiare è uno stato di tensione così particolare che può
acquistare significato di per se stesso, indipendentemente da tutto il
resto. Lo si prolunga, e più tardi lo si provoca come stato autonomo,
prescindendo dalla preda che ne sarebbe l’obiettivo ultimo. L’uomo non
sta in agguato né si getta all’inseguimento impunemente. Tutto ciò che
compie attivamente in questa direzione, lo subirà passivamente su di sé,
e rafforzato, giacché la sua maggiore intelligenza gli procura maggiori
pericoli e per conseguenza maggiori tormenti.
Non sempre l’uomo è abbastanza forte da catturare direttamente la
preda. Il suo inseguimento, di per sé abile e appropriato, finisce per
complicarsi in sommo grado. Spesso l’uomo ricorre alla trasformazione,
che è suo talento peculiare, e imita accuratamente l’animale cui mira. Vi
riesce così bene da ingannare la preda. Si può definire lusinga questo
tipo di insidia. L’uomo dice all’animale: «Io sono uguale a te, io sono te
stesso. Puoi lasciarmi avvicinare».
Dopo l’avvicinamento e il balzo – che saranno trattati in un altro
contesto – si ha il primo “contatto”. E’ forse ciò che l’uomo teme di più.
Le dita tastano ciò che ben presto apparterrà interamente al suo corpo.
Gli altri modi di afferrare- con la vista, l’udito, l’olfatto – sono di gran
lunga meno pericolosi. Essi infatti mantengono ancora la vittima a una
certa distanza, e finché rimane quello spazio intermedio si ha ancora la
possibilità di ritrarsi: nulla è deciso. Il contatto provocato dal toccare
preannuncia invece l’assaggio. Le streghe delle fiabe fanno allungare un
dito alla vittima per sentire se è già abbastanza grassa.
All’istante del contatto, l’intenzione di un corpo verso l’altro si fa
concreta. Già nelle forme di vita inferiori quel momento ha qualcosa di
decisivo. Vi sono contenuti i più antichi terrori: lo riviviamo nei sogni,
lo evochiamo con la fantasia, tutta la nostra vita nella civiltà altro non è
che un solo sforzo per evitarlo. Il rapporto di forze tra chi tocca e chi
viene toccato fa sì che la resistenza contro l’istante del contatto duri a
lungo, oppure cessi subito. Più dell’effettivo rapporto di forze conta
però l’immagine di esso che s’è fatta chi viene toccato. Per lo più egli
tenta ancora di difendere la propria pelle, cedendo solo al potere che gli
sembra schiacciante. Il contatto definitivo, il contatto in cui si incorre
quando ogni resistenza – e specialmente quella rivolta verso il futuro – è
vana, è divenuto nella nostra vita sociale l'”arresto”. Basta che ci si
senta posare sulla spalla la mano di chi ha il diritto di arrestare, e già ci
si arrende, prima ancora d’essere stati propriamente afferrati. Ci si
piega, ci si lascia portar via, rassegnati; e tuttavia ben di rado in quelle
circostanze si può guardare con calma e con fiducia al futuro.
Un ulteriore grado di avvicinamento è rappresentato
dall'”afferrare”. Le dita della mano formano uno spazio cavo entro il
quale cercano di stringere una parte della creatura toccata. Lo spazio
all’interno delle mani piegate per afferrare è l’anticamera delle cavità
della bocca e dello stomaco nelle quali la preda sarà definitivamente
incorporata. Molti animali afferrano con la bocca armata di denti,
anziché con gli artigli o con le zampe. Per gli uomini la mano che non
lascia la presa è un vero e proprio simbolo di potere. «Glielo consegnò
nelle mani», «Sta nelle sue mani», «E’ nelle mani di Dio». Simili
espressioni sono frequenti e consuete in tutte le lingue.
Nell’afferrare ciò che più conta è la “pressione”, esercitata dalla
mano dell’uomo. Le dita si chiudono sull’oggetto afferrato; lo spazio
cavo in cui lo si è spinto, si restringe.
Si vuole sentire con tutta la superficie interna della mano ciò che
si è afferrato, e lo si vuole sentire con più forza. Prima il contatto fu
cauto e leggero; ora si rafforza e si concentra, tanto da premere il più
possibile la parte della preda afferrata. Questo tipo di pressione ha preso
il posto del lacerare con gli artigli. Nei culti dell’antichità la vittima
veniva ancora lacerata, ma si trattava di una pratica animalesca: un
gioco tra animali. In caso di necessità si ricorreva anche ai denti.
La pressione può aumentare fino a “schiacciare”. Quanto più la
preda è pericolosa, tanto più la pressione cresce, fino a schiacciare. Se
si deve affrontare con la preda una dura lotta, se la preda costituisce
un’effettiva minaccia, e suscita il furore o addirittura ferisce – allora le si
vuole imporre il proprio contatto, si preme più a fondo, di quanto
sarebbe indispensabile alla propria sicurezza.
Lo schiacciare non è però soltanto espressione di reazione al
pericolo o di furore, ma soprattutto espressione di disprezzo.
Si schiaccia qualcosa di molto piccolo, che conta poco, un
“insetto”, poiché altrimenti non si saprebbe cosa farne. La mano
dell’uomo non potrebbe formare una cavità così piccola da essere
proporzionata a quell’essere minuscolo. Ma, prescindendo dal fatto che
ci si vuol liberare da uno spirito tormentatore, e oltretutto si vorrebbe
sapere che ce ne si è davvero liberati, questo comportamento verso una
mosca o una pulce manifesta il disprezzo per esseri del tutto inermi, che
vivono in una categoria di grandezze e di poteri completamente diversa
dalla nostra, con i quali non abbiamo nulla in comune, nei quali non ci
trasformiamo mai, che non temiamo mai, a meno che non compaiano
improvvisamente in masse. Le distruzioni di queste minuscole creature
sono gli unici atti di forza che restano per noi assolutamente impuniti. Il
loro sangue non ricade sulle nostre teste, né ricorda il nostro. Noi non
guardiamo nei loro occhi morenti. Non le mangiamo. Almeno per noi in
Occidente, esse non sono incluse nell’ambito crescente anche se non
molto efficiente dell’umanità. Esse sono, in una parola, messe al bando.
Se dico a qualcuno: «Ti schiaccio con le mani nude», manifesto il
massimo disprezzo immaginabile; dico infatti press’a poco: «Sei un
insetto. Non mi importa nulla di te. Posso fare di te ciò che voglio, e
tuttavia non hai per me alcuna importanza. Non hai importanza per
nessuno. Ti si può annientare impunemente. Nessuno se ne
accorgerebbe. Nessuno se ne ricorderebbe. Neppure io».
Per spingere all’estremo la distruzione mediante pressione, cioè
per “sfracellare”, la mano non è più sufficiente, è troppo molle. Per
sfracellare occorrono una notevole forza meccanica e due superfici
dure, in alto e in basso. In questo caso i denti riescono a fare ciò che
alle mani è impossibile. Generalmente quando si parla di sfracellare
non si attribuisce l’azione a un essere vivente; tale processo, di per se
stesso, è piuttosto riferito all’inorganico. Ci si serve di quella parola
innanzitutto a proposito di catastrofi naturali: grandi rocce cadendo
possono sfracellare molte piccole creature.
L’espressione viene anche usata in senso traslato, ma perde in tal
caso una parte del suo significato. Essa evoca infatti l’immagine di un
potere distruttivo, che appartiene non tanto all’uomo quanto alle
macchine. Lo sfracellare è pur sempre l’azione di un oggetto; il corpo
da solo non ne è capace e vi rinuncia generosamente. Ne è capace
invece il fortissimo «artiglio di ferro».
E’ importante notare di quanto rispetto goda l'”afferrare”.
Le funzioni della mano sono così numerose e diverse che non ci si
può stupire della molteplicità di locuzioni che vi si riferiscono. La loro
vera e propria aureola deriva però dall’afferrare, centrale e
supremamente celebrato atto del potere. La parola tedesca
“Ergriffenheit” (letteralmente: condizione di chi è afferrato), che
significa “commozione” (da cui si è totalmente afferrati), e possiede
dignità difficilmente superabile, ne è forse la testimonianza più
evidente. Essa esprime la condizione di chi è pienamente afferrato e
bloccato da una forza sulla quale non si ha alcuna influenza.
L’«afferrato», (“Ergriffene”) è preso da una gigantesca mano che
lo racchiude, e non può far nulla per difendersi da essa, di cui ignora le
intenzioni.
Solo un passo ci separa quindi dal riconoscere l’atto decisivo del
potere là dove esso si manifesta nel modo più evidente, dai tempi
remoti, fra gli animali e fra gli uomini: proprio nell'”afferrare”. A ciò si
riferiscono le superstizioni relative ai grandi felini, alle tigri e ai leoni.
Quegli animali sono i «grandi afferratori»: essi si preoccupano
unicamente di afferrare. L’agguato, il balzo, gli artigli che si conficcano
nella preda, le zanne che la dilaniano, tutto il loro agire è riunito in un
punto. La violenza di quell’agire, la sua inesorabilità, la sua sicurezza,
la indiscussa superiorità che vi si manifesta, il fatto che, qualunque cosa
esso voglia, gli possono capitare le prede più diverse: tutto contribuisce
a rendere possente l’immagine che ci si crea di essi. Da qualunque
punto di vista si voglia considerarli, è palese che in essi si manifesta il
potere nella più alta concentrazione. In questa forma essi suscitarono
negli uomini un’impressione incancellabile: tutti i re furono volentieri
leoni. Si ammirò e si celebrò l’atto stesso dell’afferrare, il suo successo.
Si riconobbero ovunque coraggio e grandezza nelle manifestazioni di
una forza schiacciante.
Il leone non deve “trasformarsi” per afferrare la sua preda: la
afferra “in quanto è un leone”. Prima ancora di muoversi, il leone si fa
riconoscere con i suoi ruggiti; egli – egli solo può permettersi di
manifestare sonoramente a ogni creatura le sue intenzioni aggressive. E
in questo modo d’agire è presente una irrevocabile ostinazione verso la
preda, che non subisce alterazioni e contribuisce ad aumentare il
terrore. Il potere nella sua intima essenza e al suo culmine sdegna le
trasformazioni, basta a se stesso, vuole soltanto se stesso. In questa
forma è sembrato agli uomini degno di ammirazione; assoluto e
arbitrario, esso non agisce a vantaggio di nulla e di nessuno.
Ogniqualvolta esso si manifestò in quella forma, apparve agli uomini
nel suo supremo splendore; e ancora oggi nulla è in grado di impedire
tali sue epifanie perennemente rinnovate.
Vi è tuttavia un secondo atto di potere, certo non meno essenziale
anche se non così fulgido. A volte si dimentica, sotto la grandiosa
impressione suscitata dall’afferrare, l’esistenza di un’azione parallela e
pressoché altrettanto importante: il “non lasciarsi afferrare”.
Ogni spazio libero che il potente crea intorno a sé serve a queste
due tendenze. Ogni potente, anche il più piccolo, cerca di impedire a
chiunque di avvicinarglisi. Ovunque si sia stabilita fra gli uomini una
forma di vita collettiva, essa si esprime in determinate distanze che
eliminano l’angoscia incessante d’essere toccati e afferrati. La
simmetria, così evidente in alcune civiltà antiche, deriva anch’essa dalle
calcolate distanze che l’uomo crea intorno a sé da ogni lato.
Presso tali civiltà, la sicurezza è sicurezza di distanza e si esprime
anche figuratamente. Il potente, dalla cui esistenza dipendono quelle
degli altri, gode della distanza maggiore e più netta; in questo senso, e
non soltanto per il suo splendore, egli è il sole o, ancora più
ampiamente, il cielo – come presso i cinesi. L’accesso a lui è reso arduo;
intorno a lui si costruiscono palazzi sempre più spaziosi. Ogni porta,
ogni passaggio, sono rigorosamente custoditi: è impossibile penetrarvi
contro la sua volontà. Dalla sua lontananza sicura egli può far afferrare
chiunque, in qualsiasi luogo. Ma come si potrebbe afferrare lui, difeso
da cento barriere?
Il vero e proprio “atto d’incorporare” la preda comincia dalla
bocca. Là conduceva originariamente la via di tutto ciò che era
commestibile: dalla mano alla bocca. Per molte creature che non hanno
braccia per afferrare, l’atto di afferrare è compito della bocca, dei denti
o del becco.
I “denti” sono il più evidente strumento di potere che gli uomini e
moltissimi animali portano in sé. Le fila in cui essi sono ordinati e il
loro aspetto lucente non trovano confronto in alcuna altra attiva parte
del corpo. I denti possono essere considerati come il primo
“ordinamento”, il quale esige formalmente un riconoscimento più
generale; un ordinamento che funge da minaccia verso l’esterno, che
non è sempre visibile, ma che appare alla vista ogniqualvolta la bocca si
apre, cioè molto spesso. La materia dei denti è diversa da quella di tutte
le altre parti del corpo, e sarebbe impressionante anche se l’uomo
avesse due soli denti. I denti sono lisci, duri, non cedono, si possono
schiacciare fra loro senza mutarne il volume, agiscono come pietre ben
polite inserite nella mascella.
L’uomo si è servito assai presto di tutte le pietre possibili per farne
armi e strumenti, ma molto tempo è trascorso prima che abbia imparato
a polirle così da renderle lisce quanto i denti.
E’ verosimile che i denti siano stati il suo modello nel progressivo
perfezionamento della fattura degli strumenti. Da tempo immemorabile
gli furono utili i denti di molti grandi animali. Egli dovette
impadronirsene mettendo in pericolo la propria vita, e gli parve che
conservassero in qualche misura il potere dell’animale che con essi lo
aveva minacciato. Li portò dunque con sé come trofei e talismani: i
denti potevano infatti incutere agli altri il timore che egli stesso aveva
provato dinanzi ad essi. L’uomo inoltre portò orgogliosamente sul suo
corpo le cicatrici delle ferite inflittegli dai denti degli animali; erano
segni d’onore, così ambiti che più tardi vennero provocati
artificialmente.
Tanto ricca e molteplice è l’impressione suscitata dai denti negli
uomini: dai denti degli animali più forti, e dai propri stessi denti.
Secondo la loro natura, essi stanno a mezza via fra una parte del corpo e
uno strumento; i denti possono cadere o essere fatti cadere, e ciò li
rende ancor più simili a uno strumento.
“Levigatezza” e “ordinamento”, peculiarità manifeste dei denti,
sono generalmente connessi all’essenza del potere: da esso sembrano
inscindibili, e in ogni forma di esso costituiscono il primo elemento
evidente. Già gli strumenti primitivi testimoniano questa connessione;
quanto più il potere è cresciuto, tanto più sono cresciute anche le sue
originarie peculiarità. Il salto dalla pietra al metallo fu forse il passaggio
decisivo nel progressivo perfezionamento della levigatezza. Per quanto
la pietra potesse essere levigata, la spada dapprima di bronzo e poi di
ferro fu ancor più affilata.
La caratteristica del metallo che lo rende così attraente consiste
proprio nell’essere levigabile più di ogni altro materiale. Nelle
macchine e nei veicoli del mondo moderno tale levigatezza si è
ulteriormente perfezionata, ed è divenuta per lo più levigatezza di
funzionamento. La lingua offre una testimonianza evidentissima di
questo fenomeno: si dice infatti che qualcosa «va liscio» o «funziona
liscio». Ciò significa che si controlla pienamente e senza fastidi un
determinato processo, quale che ne sia la natura. Nella vita moderna la
propensione alla levigatezza si è affermata anche in ambiti nei quali
originariamente la levigatezza era evitata. Una volta, case e mobili
erano di solito decorati come il corpo e le singole membra dell’uomo.
La decorazione è mutata, ma non è scomparsa; gli uomini vi restano
ostinatamente fedeli anche se il suo significato simbolico è ormai
perduto. Oggi la levigatezza ha conquistato anche le case, le loro mura,
le loro pareti, gli oggetti che vi si collocano. Ornamenti e decorazioni
vengono disprezzati come segni di cattivo gusto. Si parla di
funzionalità, di chiarezza, di utilità, ma ciò che veramente ha trionfato è
la “levigatezza” e il segreto prestigio del potere che vi è insito.
L’esempio dell’architettura moderna mostra già di per sé quanto
sarebbe difficile separare da questo punto di vista levigatezza e
ordinamento. La loro storia comune è antica: antica quanto lo sono i
denti. L’uniformità di un’intera fila di denti incisivi, le distanze nitide
che regolano la loro disposizione, furono esemplari per numerosi
ordinamenti. Raggruppamenti regolari di ogni tipo, che oggi ci
sembrano naturali, possono originariamente essere derivati da quel
modello. L’ordinamento di formazioni di soldati imposto artificialmente
dall’uomo, è ricollegato ai denti dalle tradizioni leggendarie. I soldati di
Cadmo nacquero dalla terra in cui erano stati seminati denti di drago.
Nella natura l’uomo scoprì certamente anche altri esempi di
ordinamento: quello delle erbe, o quello più rigido degli alberi. Egli
però non poteva ritrovarli anche in se stesso, mentre anche in sé
riconosceva l’ordinamento dei denti; quegli ordinamenti, inoltre, non
erano connessi in modo così immediato e costante all’immagine del
nutrimento, e non erano altrettanto usufruibili. L’attività dei denti quali
organi del morso ha rivolto così energicamente l’attenzione degli
uomini verso il loro ordinamento; e la caduta della maggior parte dei
denti, insieme con le sue dolorose conseguenze, ha reso consapevoli
dell’importanza di quell’ordinamento.
I denti sono le guardie armate della “bocca”. Quale spazio
angusto, essa è il prototipo della “prigione”. Ciò che vi penetra è
perduto, e spesso vi penetrano creature ancora vive.
Un gran numero di animali uccidono la preda solo dopo d’averla
presa nelle fauci, alcuni addirittura la inghiottono viva. Le fauci o la
bocca si aprono prontamente, se già non erano aperte durante l’agguato,
e, una volta rinserratesi, restano definitivamente chiuse: ciò ricorda le
temute caratteristiche peculiari della prigione. Si deve seriamente
ammettere che l’esempio delle fauci abbia esercitato un’oscura influenza
sul concetto di prigione. Certo, per i primi uomini non c’erano soltanto
le balene, nelle cui fauci potevano trovare spazio sufficiente; in
quell’orrido luogo non potrebbe crescere nulla, anche se si avesse il
tempo di abitarvi: la sua aridità impedirebbe ogni coltivazione.
Pressoché sterminati i draghi e le fauci mostruose, se ne trovò un
equivalente simbolico: le prigioni. Dapprima, quando erano ancora
camere di tortura, esse assomigliavano fin nei particolari alle fauci
nemiche. E così ancor oggi è raffigurato l’inferno. Le vere e proprie
prigioni, invece, si sono trasformate in senso puritano: la levigatezza
dei denti ha conquistato il mondo, le pareti delle celle sono una sola
superficie liscia e il finestrino per la luce è molto esiguo. Per i
prigionieri la libertà è tutto lo spazio che si trova di là dalla barriera
delle due fila di denti rinserrate l’una sull’altra, al posto delle quali vi
sono ora le pareti nude della cella.
La stretta “gola” attraverso la quale deve passare ogni preda,
costituisce l’ultimo dei terrori per quei pochi che sopravvivono
abbastanza a lungo da rendersene conto. La fantasia umana è sempre
stata sollecitata da queste fasi dell’incorporare. Le fauci spalancate delle
grandi fiere minacciose hanno perseguitato l’uomo nei sogni e nei miti.
I viaggi d’esplorazione entro quelle gole furono per l’uomo non meno
importanti dei viaggi per mare, e certamente altrettanto pericolosi.
Alcuni, ormai privi di speranza, vennero tratti fuori ancora vivi dalle
fauci di quelle fiere, e per tutta la vita portarono sul corpo le cicatrici
dei loro denti.
Ancor più lungo è il cammino della preda attraverso il corpo.
Durante tale viaggio, essa è lungamente sfruttata, e le viene
sottratto tutto ciò che può essere utilizzato. Ne rimangono infine solo
più rifiuti e puzzo.
Questo processo, con cui si conclude ogni conquista animale, è
particolarmente istruttivo per conoscere l’essenza del potere.
Chi vuole dominare sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro
forza di resistenza e diritti, finché siano dinanzi a lui impotenti come
animali. Egli li trasforma in animali, e anche se non lo dice
apertamente, “entro di sé” è sempre ben cosciente di quanto poco gli
importino; parlandone con i suoi confidenti, egli li definirà pecore o
gregge. Il suo scopo resta sempre quello di «incorporarseli» e di
sfruttarli. Gli è indifferente ciò che resterà di loro. Quanto peggio li ha
trattati, tanto più li disprezza. E quando non presentano più nulla di
sfruttabile, egli se ne libera di nascosto, come dei propri escrementi,
preoccupandosi che non appestino l’aria della sua abitazione.
Egli non osa riconoscere dinanzi a sé questo processo in tutti i
suoi stadi. Se ama le dichiarazioni audaci, potrà, parlando con i suoi
confidenti, ammettere di degradare gli uomini ad animali.
Ma siccome egli non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi e non
li trasforma in vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà di sfruttarli
e di “digerirli”. Anzi: è lui che dà loro da mangiare. E” così facile non
vedere l’essenziale di questo processo: anche l’uomo, d’altronde, non
uccide gli animali che possono essergli più utili vivi.
Ma anche prescindendo dal potente che sa concentrare tanto nelle
sue mani, il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi rientra nella
sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è
trasformato in escremento. La pressione costante cui la preda divenuta
cibo è sottoposta durante tutto il suo peregrinare nel corpo, la sua
dissoluzione, l’intimo vincolo che si stabilisce fra essa e chi la digerisce,
la sparizione completa e definitiva dapprima di tutte le funzioni e poi di
tutte le forme della sua precedente esistenza autonoma, la sua
identificazione o assimilazione al corpo di chi la digerisce tutto ciò
rivela perfettamente il fondamentale, ma anche il più nascosto,
meccanismo del potere. Si tratta di un processo così naturale, così
spontaneo ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta
l’importanza. Si tende a riconoscervi soltanto i molteplici scherzi del
potere che accadono in questo mondo; ma tale aspetto è in realtà il
meno importante. Così ogni giorno si digerisce e si torna a digerire.
Qualcosa di estraneo viene afferrato, sminuzzato, incorporato, e
assimilato dall’interno; si vive soltanto grazie a questo processo. Basta
che esso si interrompa, e si è giunti alla fine; questo è noto. E’ chiaro
però che “tutte” le fasi di questo processo, non solo quelle più esterne e
semicoscienti, trovano riscontro anche nella psiche.
Non è per nulla facile scoprire tali corrispondenze; alcune tracce
importanti si riveleranno nel corso di questa ricerca come conseguenze
di esse. Particolarmente istruttivi, come si vedrà, sono i sintomi
morbosi della “malinconia”.
Gli escrementi, che rimangono al termine del processo, sono
carichi del nostro reato. Da essi si può capire cosa noi abbiamo ucciso.
Sono una concentrata raccolta di indizi contro di noi.
Puzzano come i nostri peccati quotidiani, reiterati, ininterrotti e
gridano al cielo. E’ significativo che ci si isoli con essi. Ci si libera dei
propri in locali particolari, che servono solo a ciò; l’istante più privato è
quello della deiezione; l’uomo è veramente solo soltanto con i suoi
escrementi. E’ evidente che ci si vergogna dei propri. Essi sono il
suggello primordiale di quel processo di potere della digestione, che si
compie in segreto e che senza tale suggello “rimane” segreto.
12 febbraio 2014 alle 13:20
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