A proposito di divisione del lavoro… Non è che si è contro la divisione, ma contro la sua organizzazione, contro le sue giunture, contro certi movimenti meccanici che stritolano. Non vi è mai stata qualcosa come un’attività indivisa, un’origine non alienata (senza la quale non è possibile evidenziare alcuna alienazione), come presuppone un certo co-munismo (che pone segretamente al suo centro un idillio umano inesistente se non in certi sentimentalismi settecenteschi, quando pianta l’orrore sociale come prima natura nel bel mezzo di ognuno).
Il munismo, tagliando il “co-“, si pone in contrasto con qualsiasi origine e individua(lizza)zione… è attività dividuale regolata per gioco, “meccanismo” ricombinante, in cui il giogo gioca. Depositivo, non “dispositivo”. Cadavere (ciò “che cade”), scarto (ciò che è “messo fuori”), escremento (ciò “da cui ci si separa”), dall’inizio alla fine… comunque sempre rinnovato. Genesi fluttuante.
Perdita di tempo incalcolabile (se non sommariamente, da un Terzo virtualizzato, da un muni-cipio, che “non conta”) in ogni suo momento. Produzione regolata, più che per volontà, “a naso”… o, piuttosto, per noia (da νοῦς – impropriamente? -… ma s-logata, senza λόγος… non in-tuizione – “guardare dentro” -, ma em-bolo – “ciò che si getta in mezzo” – che impedisca a qualsiasi totalità fantasmatica di organizzarsi e dispiegarsi sistematicamente contro i suoi insieminon omologhi, eteronomi, eterodossi, eterogenei, difformi (è così che il logos vede, sorveglia, controlla, incarcera, sopprime, corteggia, incorpora, sussume, ciò che non comprende)… E non mi si prenda per platonico neanche per scherzo… qui non ci sono idee.
All’atelier autogestitoESC (un “centro sociale”? troppo fighetto per potersi definire tale…) in S. Lorenzo, a Roma, è arrivato Lui (come lo chiamavano questi strani compagni del “comune” che in sua attesa gli riservavano un posto auto davanti al locale con due fusti vuoti di birra)… accompagnato da una compagna hostess inviata ad accoglierLo in minigonna e tacchetto… E s’è capito subito che era venuto a seminare zizzania, specialmente contro l’infelice idea del “potere costituente” di Negri…
Titolo della lezione serale: “Che cosa significa usare?”.
Alla domanda (si) risponde con una puntuale, serrata, accademica e decostruente analisi etimologica e filosofica del termine “uso” che Agamben contrappone alla “cura” (di sé) in Foucault e (dell’Esserci) in Heidegger… invitando a superare la distinzione tra soggetto e oggetto, a sentirsi immanenti alla relazione che l’uso (né attivo, né passivo, ma “medio” in senso greco) di qualsivoglia oggetto (o soggetto) comporta. Insomma invitava a destituire qualsiasi istituzione precostituita (di sé, del “proprio”). Invitava ad usare questo potere destituente… fuori da qualsiasi diritto.
Il primo a destituirsi (ma lo dico con simpatia) forse avrebbe dovuto essere lui… che ha preteso uno scranno e un tavolino più alto (vedi foto accanto a Virno), rifiutando con sdegno tavolini IKEA e seggioloni in plastica che avevano predisposto i comunardi (pessimo anche il faretto che metteva in risalto la calvizie del filosofo, sovraesponendomi diverse foto che ho scattato). Poi ha anche sbeffeggiato dei sostenitori del “diritto del comune” lì presenti a porgli domande e criticare dandogli degli sciocchi che ripetevano concetti da scuole elementari… Non è certo il tipo che le manda a dire…
Qualche ora più tardi, riflettendoci un po’ su, fantasticavo di un mio improbabile intervento per rompere la fastidiosa devozione verso il grande filosofo dell’italian theory (da me molto stimato, sia ben inteso) che s’era prestato a codesta lectio magistralis: – Innanzitutto uso il suo concetto di uso per destituire me… proclamando di NON essere Valerio Mele… di non corrispondere a questo nome proprio. E poi sarebbe coerente che lei si destituisse da professore, nonché da Giorgio Agamben… Ecco. Da qualche parte bisogna pur cominciare. Ho usato i suoi concetti… Non mi interessa se adeguatamente o no. Anche perché non condivido l’aggettivo adeguato nell’espressione “uso adeguato” da lei usata, né gli usi “rituali” che lei propone (privi di ogni accenno alla prassi, meramente teorici). Non ho altro da dire…
Per non parlare del fatto che i termini “ontologia” e “immanenza” mi fanno venire l’orticaria… M’è rimasto il dubbio che volesse riesumare qualche forma di diritto consuetudinario… pre-moderno.
* * * * * * * * * * * *
Ho poi letto quello che è andato a dire in Grecia… Pare che egli vorrebbe rivolgere una anomia (termine, in questo senso, presente anche nella D.e A.D.) de-costituente contro l’anomia del potere dello stato d’eccezione.
Ma trovo comunque molto inquietante sia il richiamo ad imprecisate tradizioni e religioni (“Perciò ho fatto ricorso a questa idea di Kojève: è possibile un altro modello per l’Europa? Quel modello è interessante perché si basa non su una unità astratta, ma su una unità molto concreta, basata sulla tradizione, lo stile di vita, la religione”), sia la solita manfrina contro il “sistema delle banche”… nonché la strizzatina d’occhio al “comune” da giocare contro l’idea confusa di “comunismo”… (a me pare sin troppo confusa e fumosa la sua “strategia”… troppo teoretico nel suo approccio a questioni politiche… troppo filosofo…).
Il carcerato, il cattivo, che sogna di essere, in cattività, in un altro carcere.
E’ la forma di violenza (e di assedio) più efficace, quella del carcere… modello di tutti i rapporti umani e sociali (alcuni esempi: dalla Famiglia alla Coppia, dalla Coppia alla Famiglia… dalla Nazione alla Transnazione, dalla Transnazione alla Nazione… gli sblocchi ci sono solo per bloccare ulteriormente…). Non uccide… uccide lentamente… toglie un po’ alla volta tutte le possibilità di fuga…
…un maledetto carcere frattale!
Schizzi di “verità” da tutte le parti…
“Ciò parla” (Lacan)… non si sta mai zitto questo linguaggio… questo lignaggio… questo linciaggio…
Le parole come pietre. Mettiamoci una pietra sopra. Come gli ebrei. Seppellivano i vivi e i morti allo stesso modo. Cos’altro è un significato se non un morto sotto un mucchio di pietre-significanti?
Altro che Girard e le catene vittimarie… E’ il linguaggio stesso la violenza, l’assedio, la “rieducazione”, il carcere… la sassaiola, la pietra tombale delle cose… la registrazione, l’iscrizione…
E’ da quando a 14 anni lessi (in bagno, al mare e a scuola, sotto il banco) “L’interpretazione dei sogni” di Freud che ho allenato il mio cervello a pensare per analogie di funzione, sovrapponendo segni, immagini, suoni, in un ordine diverso da quello logico. Amici, parenti e conoscenti mi interpellavano sempre allo stesso modo: “Ho sognato questo… che vuol dire?”. Di volta in volta adattavo e traducevo il responso (poetico, suggestivo, erotico, ad ogni modo poco logico) alle esigenze e alle aspettative dell’interlocutore (similmente seguivo la lettura dei Tarocchi)… Scrivevo poemi per associazioni libere, in versi sciolti o in prosa, alla Rimbaud o alla Lautréamont… Piccoli saggi basati più su immagini poetiche e analogiche che su concetti… Studiai filosofia e la lasciai proprio per questa mia attitudine poco logica, pur riconoscendomi buone doti di intuizione e invenzione concettuale… Ma non è questo che viene richiesto, evidentemente, all’Università e nella società in generale… Per questo ho inventato la psicanalogica (materia che nessuno studierà mai… e che del resto non ho neanche epistemologicamente fondato, essendo un’attitudine, uno stile di percezione, un’esperienza…).
Già mi successe una volta di non capire più cosa scrivevo… Mi succede ogni tanto, quando sono stanco e non colgo più la tenue tessitura logica o l’imbastitura analogica dei testi che scrivo, questi tessuti piegati e cuciti e pronti all’uso o per il macero. Per il resto, in superficie, si allargano parentesi a macchia d’olio, legate al testo “principale” in modo davvero impalpabile, sommerso… si aprono falle che tendono a smarrire i soggetti (per ora senza riuscire nell’intento), nude look che lasciano trasparire la pelle, velature di un corpo (senza organi? solo superficie? solo forma più o meno tesa?)… la lingua fa continue allusioni, si imputtanisce, lecca le orecchie, scioglie o fonde i legami… ne installa dei nuovi… rompendo l’ordine precedente, l’ago, la spola…
Nell’era del blog-roll, del presente separato dal passato, del dominio dell’attuale, la fatica diventa doppia… La fine tessitura logica (l’arte del ricamo in cui personalmente non credo di eccellere come alcuni miei, ancora poco illustri, contemporanei) e l’imbastitura analogica delle pieghe vengono lacerate da memi insolenti… da tutte queste iconcine, immaginette, segni di segni, tagli di tagli, castrazioni di castrazioni, lingue-madri che non si toccano non sia mai, padri esplosi in mille pezzi ma ricomponibili come Osiride (fallo a parte, nelle mani di Iside, la trans…) o irrimediabilmente a brandelli, come Orfeo lacerato dalle Menadi… (o erano le tre forsennate Erinni, nate, come i de-sideri, dai genitali recisi del Cielo?… o erano le triviali Ecati? o le gentili Cariti travestite o cadute in disgrazia?…), che occhieggiano e occhiellano ai margini… o si impongono prepotentemente in sovrimpressione… Si fa una fatica enorme a non scivolare nell’oblio, a non perdere il filo, a non perdere il ritmo e la direzione della cucitura. Probabilmente se ne approfittano, potenziando e amplificando, con pignoleria scientifica, la decomposizione che ci lavora costantemente… lasciandoci, come se fossimo merce o scarti, alla mercé delle loro macchine tessili, sepolte da qualche parte in qualche fabbrica del Bangladesh o in qualche prigione russa… o della battitura meccanica di qualche robot che non perde un colpo nella stampa dei circuiti integrati.
Per lo più, è come se vedeste una partita di biliardo fissando solo la buca. Ogni tanto derridianamente sorpresi dall’a-venire della palla che vi scivola dentro (che talvolta è anche un po’ thaumazein platonico… “stupore ammirato”), di cui forse intravedete il numeretto… ma non state osservando le traiettorie, la stecca, la forza e la precisione del colpo, la tecnica del giocatore, il giocatore, il suo avversario, il punteggio, ecc…
Dovremmo rifare tutto daccapo… scartando in primo luogo la polarizzazione monoteista, base di tutte le pessime invenzioni successive.
Le città (come Damasco ora o Sarajevo in passato) in cui si svolge quello che chiamano “guerra civile” sembrano un immenso cantiere con squadre di demolizione che pianificano il loro lavoro. Le esplosioni non sono mai ovunque, ma solo dove serve. E’ guerra di condomini, di cittadini che insistono a voler essere cittadini, misti a operai demolitori sul campo (comunque contractors, anche se si tratta di eserciti nazionali…) molto poco raccomandabili… messi apposta per convincere i pervicaci cittadini a mollare, ad andarsene, a cedere quel pezzetto di proprietà privata che avevano prima. Una volta finito il lavoro si farà una tregua più o meno duratura, si sminerà e si ricostruirà… per questo si fanno gli edifici in cemento armato. Il metallo si può riciclare, il cemento si sgretola in nubi di polvere. E’ un materiale fatto apposta per essere distrutto e rimpiazzato… Basta un bulldozer e via… altre colate, altre merci, ricchi premi e cotillons… speranze, sorrisi, bambini… e poi ancora booooom, badabang, ratatatatatatata…
Quel che voglio dire è che la “guerra civile” non è una cosa così diversa da quello che succede in qualsiasi città. A Damasco si usano solo metodi più sbrigativi. E’ una questione di urgenza, di fretta dei costruttori di cose che per essere costruite devono necessariamente distruggerne altre, persone comprese. Qua ce la si prende con più calma. Ma anche qui ci sono case e persone distrutte, tendenti al crollo. Basta osservare meglio gli sguardi e le crepe… Qui prevale il perfido porfido. Nero come le carogne. Buono per le sassaiole. In fondo siamo sopra al Vulcano Laziale…
vistose tracce, a Velletri, del “recente” conflitto mondiale…
– Cioè, forse non avete capito… La guerra in Iraq è finita da tempo, in Libia è durata troppo poco ed è stata solo di aria, per quanto ci riguarda… Nel frattempo abbiamo costruito armi di tutti i tipi… se non svuotiamo i magazzini, prima o poi la nostra industria bellica si ferma, il PIL cala… Se non possiamo bombardare la Siria, dobbiamo bombardare qualcos’altro… Siamo parte essenziale del processo… Se fermate la distruzione, potete scordarvi la “crescita”… – Potreste bombardarvi da soli, ma prima occorre una apposita riforma strutturale di qualche emendamento… Anzi, visto che ci siamo, facciamo prima noi questo esperimento… cambiamo qualche articolo della costituzione… aggiungiamo qualche leggina… e poi fanculo Isernia! – Eh, sì… senza contare che è pure pericoloso avere gli arsenali pieni… Da qualche parte tocca svuotarli… Vediamo il lato positivo: sarà una festa di luci!… illumineremo la notte a giorno!… – Ahahahahah! Voi sì che siete “illuministi”!
Del resto anche a noi ci gasano con i pesticidi, gli inceneritori, le raffinerie, le acciaierie, le cokerie, ecc… è solo un processo un po’ più lento e omeopatico.
L’ONU, per (sua) logica, dovrebbe dare il via libera per una “missione di pace” contro l’ILVA di Riva o cose così… (violato l’ultimo confine, quello della differenza tra fronte interno ed esterno, come si può leggere tra le righe di un famoso discorso di un noto Nobel per la Pace alla riscossione del premio, questo dovrebbe accadere…).
Ah… e i gas di scarico dei veicoli a motore, il fumo delle sigarette?… sono la forma più decentralizzata di guerra chimica.
Forse c’è una “verità” più semplice: ci odiamo e vogliamo morire.
(…Questo accanto e dentro “ci amiamo e vogliamo vivere”).
L’ANTI-EDIPO E LA PULSIONE DI MORTE
“La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza”.
(Papa Francesco I)
(Ovviamente non sono d’accordo con la questione di coscienza punibile, risentita e cristiana che vorrebbe universalmente porre il Papa…).
Secondo Deleuze e Guattari (ne l’Anti-Edipo, paragrafo: La rappresentazione barbarica o imperiale, che cito qui, in esergo, e continuo qui sotto, dopo i versi e i gatti intorno al buco…) era una “macchina dispotica” interiorizzata, una macchina repressiva a rendere violente (risentite perché rimosse-represse) le macchine desideranti… dal momento che egli tendeva a neutralizzare in un ipotetico corpo pieno del Desiderio la “pulsione di morte” (connotandola appunto come un effetto della vendetta del despota che imponeva i suoi codici linguistici, la sua surcodifica dei corpi, triangolava con madre e sorella contro qualsiasi manifestazione di risentimento… o come un effetto della triangolazione edipica successiva che triangolava con mamma-papà, in pieno ressentiment cristiano)… Non mi sembra affatto così. Non è solo una questione di despoti o di edipi accecati, castrati… è proprio che non si gode senza morte. Non c’è niente di pieno né sul versante del piacere, né su quello del dolore. Vivere e morire, memorizzare e dimenticare, sono processi simultanei… anchesenza quell’eccesso surcodificante, dispotico e repressivo di cui Deleuze scrive. La pulsione di morte, a mio avviso, non è questione di “latenza” (di colpi a vuoto, di rimozione e repressione)… è ben scandita e modulata… è nel ritmo che ci attraversa, che solca anche gli orgasmi. Si gode a reprimere, si gode a rimuovere, si gode a liberarsi, si gode ad uccidere, si gode comunque… modulando le pulsazioni velocemente o ritenendole… accumulandole il più possibile, nel caso dell’economia capitalista, per accentrare potere e accrescere il potenziale (di riserva e sperpero)… gestendo i flussi sia nella distruzione che nella prosperità, a valle come a monte… evitando come la peste l’equilibrio, il pareggio, il Grande Zero centrale (sogno riconciliante, immobilizzante e concentrazionario di marxisti e fourieristi, per Lyotard… ma anche dio nascosto ebraico, motore immobile aristotelico, ecc…), il buco nero da cui fuggono tutti i simulacri e tutti i discorsi, compreso questo, come accade tra i bracci di una vertigine galattica.
Tendimi la mano
e facciamo surf
sull’onda cosmica.
Il centro non tiene,
il centro non c’è.
Restiamo qui, sospesi
a modulare i campi,
da bravi hortolani.
Con il grassetto sottolineo i temi chiave, con il rosso i punti di divergenza con quel che penso.
La legge non comincia con l’essere ciò che diverrà o pretenderà di diventare più tardi: una garanzia contro il dispotismo, un principio immanente che riunisce le parti in un tutto, che fa di questo tutto l’oggetto d’una conoscenza e di una volontà generali, le cui sanzioni non fanno che derivare per giudizio e applicazioni sulle parti ribelli. […] La legge non fa conoscere nulla e non ha oggetto conoscibile, il verdetto non preesistendo alla sanzione, e l’enunciato della legge non preesistendo al verdetto. L’ordalia presenta questi due caratteri allo stato puro. […] E’ la sanzione a scrivere e il verdetto e la regola. Il corpo ha un bell’essersi liberato dal grafismo che gli era proprio nel sistema della connotazione; esso diventa ora la pietra e la carta, la tavola e la moneta su cui la nuova scrittura può segnare le sue figure, il suo fonetismo, il suo alfabeto. Surcodificare, questa è l’essenza della legge e l’origine dei nuovi dolori del corpo. Il castigo ha cessato di essere una festa, donde l’occhio trae un plusvalore nel triangolo magico di alleanza e filiazione. Il castigo diventa una vendetta, vendetta della voce, della mano e dell’occhio ora riuniti nel despota, vendetta della nuova alleanza. […]
Vendetta, e come vendetta che si esercita in anticipo, la legge barbarica imperiale schiaccia tutto il gioco primitivo dell’azione, dell’agito e della reazione. Occorre ora che la passività diventi la virtù dei soggetti attaccati al corpo dispotico. Come dice Nietzsche, quando appunto mostra come il castigo diventi una vendetta nelle formazioni imperiali, bisogna che “una prodigiosa quantità di libertà sia scomparsa dal mondo, o almeno scomparsa agli occhi di tutti, costretta a passare allo stato latente, sotto l’urto dei loro colpi di martello, della loro tirannia d’artisti…”. Si produce un’esaustione dell’istinto di morte, che cessa di essere codificato nel gioco di azioni e di reazioni selvagge ove il fatalismo era ancora qualcosa di agito, per diventare il cupo agente della surcodificazione, l’oggetto staccato che plana su qualcuno, come se la macchina sociale si fosse sganciata dalle macchine desideranti: morte, desiderio del desiderio del despota, latenza iscritta nel profondo dell’apparato di Stato. Piuttosto che un solo organo si svincoli da quest’apparato, o scivoli fuori dal corpo dispotico, non ci saranno sopravvissuti. In realtà, non c’è più altra necessità (altro fatum) tranne quello del significante nei suoi rapporti con il significato: tale è il regime del terrore. Quel che si suppone la legge significhi, non lo si conoscerà che più tardi, quando si sarà sviluppata ed avrà assunto la nuova figura che sembra opporla al dispotismo. Ma, sin dall’inizio, essa esprime l’imperialismo del significante che produce i suoi significati come effetti tanto più efficaci e necessari in quanto si sottraggono alla conoscenza e devono tutto alla loro causa eminente. […] Ma tutto questo, lo sviluppo del significato democratico o l’avvolgimento del significante dispotico, fa tuttavia parte della questione, ora aperta ora sbarrata, identica astrazione continuata, o macchinario di rimozione che ci allontana sempre dalle macchine desideranti. Non è mai esistito che un solo Stato. A cosa serve? sfuma sempre più, e scompare nelle brume del pessimismo, del nichilismo, Nada, Nada! […] L’istinto di morte è, nello Stato, ancor più profondo di quanto non si credesse, e che la latenza non solo travaglia i soggetti, ma è all’opera nei congegni più elevati. La vendetta diventa quella dei soggetti contro il despota. Nel sistema di latenza del terrore, ciò che non è più attivo, agito o reagito, “ciò che è reso latente dalla forza, rinserrato, rimosso, rientrato all’interno”, è ora risentito: l’eterno risentimento dei soggetti risponde all’eterna vendetta dei despoti. […]
Hanno fatto passare tutto allo stato latente, i fondatori di imperi; hanno inventato la vendetta e suscitato il risentimento, questa controvendetta. E tuttavia Nietzsche dice ancora di loro quel che diceva già del sistema primitivo: non è presso di loro che la “cattiva coscienza” – intendiamo Edipo – ha attecchito e si è messa a spuntare, l’orribile pianta. Solo, è stato fatto un passo in più in questo senso: Edipo, la cattiva coscienza, l’interiorità, essi li ha resi possibili… […] E’ certo la storia del desiderio e la sua storia sessuale (non ce ne sono altre). Ma tutti i pezzi qui funzionano come congegni dello Stato. Il desiderio non opera certo tra un figlio, una madre e un padre. Il desiderio procede ad un investimento libidinale di una macchina di Stato, che surcodifica le macchine territoriali, e, con un giro di vite supplementare, rimuove le macchine desideranti. L’incesto deriva da questo investimento, non il contrario, e non mette in gioco dapprima che il despota, la sorella e la madre: è lui la rappresentazione surcodificante e rimovente. Il padre non interviene che come rappresentante della vecchia macchina territoriale, ma è la sorella il rappresentante della nuova alleanza, e la madre il rappresentante della filiazione diretta. Padre e figlio non sono ancora nati. Tutta la sessualità è in gioco tra macchine, lotta tra esse, sovrapposizione, muratura. Stupiamoci una volta di più della narrazione portata da Freud. In Mosé e il monoteismo, egli avverte certo che la latenza è affare di Stato. Ma allora essa non deve succedere al “complesso di Edipo”, segnare la rimozione del complesso o addirittura la sua successione. Essa deve risultare dall’azione rimovente della rappresentazione incestuosa che non è per nulla ancora un complesso come desiderio rimosso, perché al contrario essa esercita la sua azione di rimozione sul desiderio stesso. Il complesso di Edipo, come lo chiama la psicanalisi, nascerà dalla latenza, dopo la latenza, e significa il ritorno del rimosso nelle condizioni che sfigurano, spostano ed anzi decodificano il desiderio. Il complesso di Edipo non appare se non dopo la latenza; e quando Freud riconosce due tempi da essa separati, solo il secondo merita il nome di complesso, mentre il primo non ne esprime che i pezzi e i congegni che funzionano da un tutt’altro punto di vista, in tutt’altra organizzazione. E’ questa la mania della psicanalisi con tutti i suoi paralogismi: presentare come risoluzione o tentativo di risoluzione del complesso ciò che ne è l’instaurazione definitiva o l’installazione interiore, e presentare come complesso ciò che ne è ancora il contrario. Cosa occorrerà infatti perché l’Edipo diventi l’Edipo, il complesso di Edipo? Molte cose in verità, quelle stesse che Nietzsche ha parzialmente presentito nell’evoluzione del debito infinito.
Bisognerà che la cellula edipica termini la sua migrazione, che non si acconsenta a passare dallo stato di rappresentazione spostato allo stato di rappresentazione rimovente, ma che, da rappresentazione rimovente, diventi infine il rappresentante del desiderio stesso. E che lo diventi a titolo di rappresentante spostato. Bisognerà che il debito diventi non solo debito infinito, ma che come debito infinito venga interiorizzato e spiritualizzato (il cristianesimo e quel che segue). Bisognerà che si formino padre e figlio, cioè che la triade regale si “mascolinizzi”, come conseguenza del debito infinito ora interiorizzato [n.d.a. Gli storici della religione e gli psicanalisti conoscono bene questo problema della mascolinizzazione della triade imperiale, in funzione del rapporto padre-figlio che vi è introdotto. Nietzsche vi intravede a ragione un momento essenziale nello sviluppo del debito infinito: “Questo alleviamento che fu il colpo di genio del cristianesimo… Dio che paga a se stesso, Dio che riesce da solo a liberare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso è diventato irremissibile, il creditore che si offre per il suo debitore per amore (chi lo crederebbe), per amore per il suo debitore!” (Genealogia della morale, II, § 21)]. Bisognerà che Edipo-despota sia sostituito da Edipi-soggetti, da Edipi-padri e da Edipi-figli. Bisognerà che tutte le operazioni formali siano riprese in un campo sociale decodificato e risuonino nell’elemento puro e privato dell’interiorità, della riproduzione interiore. Bisognerà che l’apparato repressione-rimozione subisca una riorganizzazione completa. Bisognerà dunque che il desiderio, finita la sua migrazione, faccia l’esperienza di questa estrema miseria: essere rivolto contro di sé, il rivolgimento contro di sé, la cattiva coscienza, la colpevolezza, che lo aggrega tanto al campo sociale più decodificato quanto all’interiorità più morbosa, la trappola del desiderio, la sua pianta velenosa. Finché la storia del desiderio non sperimenta questa fine, Edipo assilla tutte le società, ma come l’incubo di ciò che non è ancora capitato loro – l’ora non è ancora venuta”.
Hai letto? Beh… dimenticalo.
Anzi, ricordati anche di quest’altro passo (più condivisibile, sempre dall’Anti-Edipo), prima di dimenticare già quando riprende a parlare della staffetta comico-“futuristica” (patafisica come nella corsa dei ciclisti morti ne “Il Supermaschio” di Jarry) tra macchine desideranti (grassetti e link sono miei):
Il corpo senza organi è il modello della morte. Come han ben capito gli autori della letteratura del terrore, non è la morte a servire da modello alla catatonia, ma la schizofrenia catatonica a fornire il proprio modello alla morte. Intensità-zero. Il modello della morte appare quando il corpo senza organi respinge e depone gli organi – niente bocca, naso, denti… fino all’automutilazione, fino al suicidio. E tuttavia non c’è opposizione reale tra il corpo senza organi e gli organi in quanto oggetti parziali; la sola opposizione reale riguarda l’organismo molare che rappresenta il loro comune nemico. Si vede, nella macchina desiderante, lo stesso catatonico ispirato dal motore immobile che lo forza a deporre i suoi organi, ad immobilizzarli, a farli tacere, ma anche, spinto dai pezzi lavorativi che funzionano allora in modo autonomo e stereotipo, a riattivarli, a insufflare in essi movimenti locali. Si tratta di pezzi diversi della macchina, diversi e coesistenti, diversi nella loro stessa coesistenza. È perciò assurdo parlare di un desiderio di morte che si opporrebbe qualitativamente ai desideri di vita. La morte non è desiderata, c’è solo la morte che desidera, a titolo di corpo senza organi o di motore immobile, e c’è anche la vita che desidera, a titolo di organi di lavoro. Non si tratta qui di due desideri, ma di due pezzi, di due sorte di pezzi della macchina desiderante, nella dispersione della macchina stessa. Tuttavia, il problema sussiste: come possono funzionare insieme? Non si tratta ancora di un funzionamento, ma solo della condizione (non strutturale) d’un funzionamento molecolare. Il funzionamento appare quando il motore, nelle condizioni precedenti, cioè senza cessare di essere immobile e senza formare un organismo, attira gli organi sul corpo senza organi, e glieli attribuisce nel movimento oggettivo apparente. La repulsione è la condizione di funzionamento della macchina, ma l’attrazione è il funzionamento stesso. Che il funzionamento dipenda dalla condizione, risulta evidente per il fatto stesso che tutto questo non funziona se non guastandosi. Si può dire allora in cosa consistano questo andamento o questo funzionamento: si tratta, nel ciclo della macchina desiderante, di tradurre costantemente, di convertire costantemente il modello della morte in qualcosa di assolutamente diverso, l’esperienza della morte. Di convertire la morte che sale dal didentro (nel corpo senza organi) in morte che arriva dal difuori (sul corpo senza organi).
Ma sembra che l’oscurità si infittisca: cos’è infatti l’esperienza della morte, distinta dal modello? Si tratta ancora di un desiderio di morte? Di un essere per la morte? Oppure di un investimento della morte, magari speculativo? Niente di tutto questo. L’esperienza della morte è la cosa più consueta dell’inconscio, appunto perché ha luogo nella vita e per la vita, in ogni passaggio o in ogni divenire, in ogni intensità come passaggio e divenire. È caratteristico di ogni intensità investire in un attimo in se stessa l’intensità — zero a partire da cui è prodotta come ciò che cresce o diminuisce in un’infinità di gradi (come diceva Klossowski, «un afflusso è necessario solo per significare l’assenza di intensità»). Abbiamo cercato di mostrare, in questo senso, come i rapporti di attrazione e di repulsione producano stati, sensazioni, emozioni tali che implicano una nuova conversione energetica e formano il terzo tipo di sintesi, le sintesi di congiunzione. Si direbbe che l’inconscio come soggetto reale abbia fatto sciamare su tutto il contorno del suo ciclo un soggetto apparente, residuale e nomade, che passa attraverso tutti i divenire corrispondenti alle disgiunzioni incluse: ultimo pezzo della macchina desiderante, pezzo adiacente. Sono questi divenire e questi sentimenti intensi, queste emozioni intensive ad alimentare deliri e allucinazioni. Ma, in se stesse, esse sono quel che più si accosta alla materia di cui investono in sé il grado zero. Sono esse a condurre l’esperienza inconscia della morte, in quanto la morte è ciò che è sentito in ogni sentimento, ciò che non cessa e non finisce di succedere in ogni divenire — nel divenire-altro sesso, nel divenire-dio, nel divenire-razza, ecc., formando le zone d’intensità sul corpo senza organi. Ogni intensità affronta nella sua propria vita l’esperienza della morte, la avvolge, e certamente, alla fine, si spegne; ogni divenire diventa esso stesso un diveniremorto! Allora la morte giunge effettivamente. Blanchot distingue bene questo duplice carattere, questi due aspetti irriducibili della morte, l’uno nel quale il soggetto apparente non cessa di vivere e di viaggiare come Si, «non si cessa e non si finisce mai di morire», l’altro in cui lo stesso soggetto, fissato come Io, muore effettivamente, cioè cessa alla fine di morire poiché finisce col morire, nella realtà d’un ultimo istante che lo fissa cosi come Io disfacendo l’intensità, riconducendola allo zero ch’essa avvolge. Da un aspetto all’altro non c’è affatto approfondimento personologico, ma tutt’altro: c’è ritorno dell’esperienza di morte al modello della morte, nel ciclo delle macchine desideranti. Il ciclo è chiuso. Per una nuova partenza, poiché Io è un altro. Bisogna che l’esperienza della morte ci abbia appunto dato abbastanza esperienza allargata, perché si viva e si sappia che le macchine desideranti non muoiono. E che il soggetto come pezzo adiacente è sempre un «si» che conduce l’esperienza, non un Io che riceve il modello. Il modello stesso infatti non è maggiormente l’io, bensì il corpo senza organi. E Io non raggiunge il modello senza che il modello, di nuovo, riparta verso l’esperienza. Andare sempre dal modello all’esperienza e ripartire, ritornare dal modello all’esperienza: schizofrenizzare la morte, è questo l’esercizio delle macchine desideranti (il loro segreto, ben compreso dagli autori del terrore). Le macchine ci dicono questo, e ce lo fanno vivere, sentire, più profondamente del delirio e più lontano dell’allucinazione: sì, il ritorno alla repulsione condizionerà altre attrazioni, altri funzionamenti, l’avvio di altri pezzi lavorativi sul corpo senza organi, la messa in opera d’altri pezzi adiacenti al contorno, che hanno altrettanto diritto di dire Si quanto noi stessi. «Crepi nel suo balzo per mano di cose inaudite e innominabili; altri orribili lavoratori verranno; e cominceranno dagli orizzonti ove l’altro si è accasciato». L’eterno ritorno come esperienza, e circuito deterritorializzato di tutti i cicli del desiderio.
A leggere bene ci si accorge di come il patriarcato rovesciato sia comunque patriarcato (gestione, possesso dei corpi che passa da una padrone ad una padrona, una sorta di donna cazzuta… ove per “cazzo” si intende l’unità di misura del desiderio e la sua riduzione ad organo o “organizzazione”: i rapporti “sociali” – i rapporti tra soci che iscrivono altri soci nel loro giochino di lenoni, di alleanze tra lenoni, di prestigio di lenoni, di riproduzione di lenoni… – che si creano in relazione a quell’organo divenuto unità simbolica, iconica, visibile e contabile di desiderio… e che non cambia se al posto dei lenoni si mettono delle maîtresse… La conta – capitale – dei capi scambiati, dividuabili, è sempre a misura di in/dividuabile unità del cazzo… non a caso si dice, di chi o di ciò che conta poco, che “non conta un cazzo”…).
1) Il mio corpo, colonia (poco) ambulante di parassiti, batteri, funghi, cellule più o meno specializzate che muoiono e rinascono in continuazione, non è “mio”, inteso come di proprietà di una ipotetica centralina di controllo che dorme per un terzo del tempo e per il resto fluisce credendosi un’unità singolare, un I/O… Altro che centralina di controllo! è un flusso che reagisce a stimoli esterni(i cui contenuti sono per lo più dati e compresi nei vari contenitori)… Se non ha stimoli esterni ne crea di interni, che sono più o meno la stessa cosa di quelli esterni (come si dice fin da bambini, “facciamo che…”), ma con un più alto tasso di ludicità, per questo contorto, approssimativo e convoluto reticolo di connessioni elettriche random che è il cervello. Nessuno memorizza allo stesso modo… L’equivalenza generale del senso o della merce (che permette il linguaggio e l’uso del denaro) dipende da differenti cicli temporali che per un certo periodo coincidono, approssimativamente, mediamente, su vasta scala… Diversamente la maggioranza degli individui non capirebbe nulla e non accumulerebbe o spenderebbe (come è avvezza) alcun valore… si sentirebbe spaesata di fronte a linguaggi e relazioni non conformi agli usi e costumi del determinato periodo storico che l’ha forgiata (anche quel che scrivo, o la mia stessa vita, è probabilmente poco conforme, in “dissonanza cognitiva” e fuori tempo e potrebbe risultare poco comprensibile…). Zoom out: siamo fatti di polvere di stelle che danza vorticando intorno alla sua catastrofe. In attesa amorevole (cioè mortale) della successiva in-com-prensibile trasformazione che ne cambierà la “natura”.
2) Quanto alla gestione del corpo, penso:
– gesto (produzione di senso/non-senso),
– gestazione (produzione di viventi),
– di-gestione (produzione di scarti).
Nulla di “manageriale”… qualcosa tra l’insensato, il buffo e il penoso.
Nei contenitori approssimativi di “french theory” e “italian theory” quello che non va è sia la determinazione nazionale (“french” o “italian”, comunque declinata all’angloamericana, vista cioè da quell’angolazione) che la “theory”, la processione, la passerella, la sfilata di pensieri… belle analisi (e neanche tanto) ma (che rendono) incapaci di una costruzione pratica (o, più semplicemente, di una prassi qualsiasi) che abbia un senso indipendente dal sistema vigente (che nutre e si serve sapientemente e ferocemente anche del pensiero opposto ai propri interessi… compreso quello della french o italian theory). Io ammiro invece la capacità degli “americani” di pensare e progettare strategicamente la complessità… (guarda un po’ che ti dico!…). Non mi piacciono chiaramente le premesse “cristiane” di quella strategia totalitaria da “glory, glory, hallelujah” (che ingloba la violenza del sacrificio, in ogni aspetto della vita e della visione del mondo), ma non si può non fare chapeau di fronte ad una simile tremenda efficacia… Loro ci insegnano che non è possibile trascurare nessun aspetto… che non ci si può limitare all’economia o all’ideologia… infatti hanno costruito per ogni disposizione umana un dispositivo… che, in ciascun caso, riconferma e generalizza la santità della proprietà, della violenza individuale ed universale… anche contro l’identità e i suoi software collaterali (Amore, Libertà, ecc… che i “soci” devono continuare ad avvertire come “naturali” e come le sole cose che contano…). Il “figlio di puttana” (“rovinare i propri amici è la regola numero uno”) non ha ideologia… crea (e detta) le condizioni perché vi sia quella che più gioca a suo favore… costruisce contenitori di contenitori (es.: navi, treni, ecc… con container… ma anche scuole, con classi, con libri, con studenti che diventano figli quando sono nel contenitore-famiglia, ecc… e finanziamenti, database, centrali energetiche, che inscrivono il tutto… questa totalità dall’esistenza probabile fatta statisticamente, equivalentemente e generalmente di bei rapporti sociali tra individui che si vendono, si alleano, si succedono e si replicano, al di qua di un filo spinato e con le armi del loro o dell’altrui fortino perennemente puntate contro… anche se si fa finta di niente, per non farsi troppo ribrezzo). Mai ci fu un padrone più servo o un servo più padrone. E, a cascata o per contagio, in quanto più o meno consapevolmente assediati o in ostaggio, lo siamo diventati un po’ tutti…
PS: Un erede di quella bizzarra scuola (mi riferisco alla french…), come l’equilibrista e clownesco (“universalista”, pseudo-hegeliano, leninista!…) Žižek provò a spingere l’idea degli “organi senza corpo (OsC)” in polemica con certe stagnazioni dello schizofrenico ed artaudiano “corpo senza organi (CsO)”, divenuto una delle figure predilette dal duo Deleuze-Guattari, che vi avevano montato su nientemeno che macchine desideranti!… A dispetto di certi amanti del corpo pieno, continuo a preferire quell’impensabile aborto concettuale freudiano che fu la pulsione di morte (con il Lyotard della “circonversione” e la Kristeva del “soggetto zerologico”) e le sue vitalissime pulsazioni ritmiche, le sue forme insensate quanto apollinee, “barocche”, il -getto, il futuro, ecc… la relazione che spezzetta, divide i sog-getti senza individuarli… di-vergente, di-vertente, munista, de-capitalizzata, de-centralizzata, ecc… (le cose, tra l’altro, sarebbero molto più semplici di quanto sembrino a parole… ma va bene così, per ora…).
“La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”
Al di là delle esagerazioni dissonanti della notte trasfigurata che attraversarono gli intellettuali tedeschi scampati alla catastrofe nazista, c’è da interrogare ancora una volta il fondamento di quel che chiamiamo “democrazia” e che a mio avviso non è rintracciabile (secondo Benjamin e anche per me) nella dialettica diritto positivo/stato di polizia o, come Derrida chiama questa seconda istanza, il “peggio”, la “soluzione finale” (della quale ci ammoniva in “Forza di Legge”… un Derrida molto ammaestrato nel tempo e divenuto addirittura un difensore di una democrazia più immaginata che reale, che egli apparenta alla “decostruzione”, contrapponendola a quel cattivone di Benjamin, il quale intravedeva invece nel diritto positivo la stessa violenza contro la nuda vita scatenata poi da uno “stato di polizia” come quello del nazismo).
Non mi pare dunque Auschwitz il mito fondante della democrazia totalitaria attuale (in quanto in continuità sostanziale con le feroci burocrazie naziste… né vale la pena soffermarsi sulla RIDICOLA preoccupazione adorniana che si possano o meno scrivere poesie…), quanto Hiroshima… immenso flash fotografico, spettacolo esemplare, pietra di paragone di qualsiasi scempio che gli sarebbe comunque preferibile, evento che sospende e dissolve qualsiasi umanesimo, qualsiasi critica, qualsiasi diritto, qualsiasi burocrazia, qualsiasi fabbrica, qualsiasi stato, qualsiasi guerra clausewitsiana… Lo sterminio istantaneo del nemico, piovuto dal cielo, pone fine a qualunque confronto, dialettica, complementarità, confine, scelta tra civiltà o barbarie, ecc… è annientamento, nonsenso generalizzato, catastrofe (non soluzione) finale, evento senza causa, apocalisse senza rivelazione, minaccia non più legata ad un nomos, ad un territorio, ad un’identità, a fratellanze, filiazioni e altre cacate ammorbanti del genere… è l’equivalenza generale della vita di fronte al suo annientamento tecnico. Vero segreto del dominio mercantile (capitalistico, monetario) pienamente dispiegato (…mentre il lager era il modello dell’equivalenza generale dei corpi, vivi o morti, in quanto merci).
Non è neanche una metafora, una rappresentazione… è la fine delle metafore e delle rappresentazioni possibili… la fine dello stesso Terrore, della tentazione dispotica, che ha turbato sin dall’inizio le infauste pretese universalistiche dell’Illuminismo (che un Derrida kantianizzato in qualche modo difende, insieme alla critica, al processo di crisi infinito chiamato democrazia, innescato dal modo di produzione capitalista), il surclassamento dell’orrore dell’Olocausto, sventolato ad ogni pie’ sospinto come ciò che la Democrazia deve evitare se non vuole precipitare nell’Abisso… Dopo Hiroshima, la stessa violenza che l’ha distrutta perde di senso, non è più né divina, né politica. E’ il fondamento tecnico di una violenza insensata che ha contaminato tutti e che ha assunto le forme spettrali dell’Occidente… terra del lavoro morto, dei morti viventi, del “denaro morto” (Marx, pag. 67: “Laddove operaio e capitalista soffrono nella stessa misura, l’operaio patisce nella sua esistenza, il capitalismo nel guadagno del suo denaro morto“… o ancora meglio, nella definizione pokeristica: “Le chips di un giocatore inesperto che ha virtualmente nessuna chance di vincere un torneo, vengono chiamate denaro morto“… in pratica il mancato profitto, il debito, il deficit, gli investimenti improduttivi, ecc…).
Il disprezzo per la vita dimostrato dal complesso militare-industriale statunitense (è difficile pensare un soggetto dietro un simile evento catastrofico, anche se ci sono Truman, il suo entourage, fisici per eccellenza come Einstein che tuttora osanniamo ad ogni merdosa scoperta di particelle subatomiche, ad ogni meditazione psichedelica sulle foto di Hubble, ecc…) mette in secondo piano lo sterminio di alcune categorie (definito mitologicamente o religiosamente come “il male assoluto”) e i deliri razziali dei nazisti. E’ più spaventoso, è un orrore senza fine spacciato per prodigio della tecnica, per spettacolo, per inevitabile fine di una guerra che non poteva più esprimere un “peggio”, dopo Hiroshima… Ma non c’è giustificazione per gli statunitensi. L’orrore che hanno prodotto è stato nascosto solo dall’evidenza della loro vittoria e purtroppo sono i vincitori a riscrivere la storia (e siamo ancora una loro colonia)… E ancora oggi continuano a produrre catastrofi cinematografiche per potersi sottrarre a quello che si potrebbe definire una colpa imperdonabile (incommensurabile, a dismisura d’uomo… fotogramma sospeso e incombente della cancellazione della realtà, che cancella anche le dinamiche umane e sacrificali e l’immondizia religiosa relativa… per cui nessuna colpa o perdono può aver luogo, per mancanza di soggetti…) che viene narrata come un destino (“s’è accesa una stella sulla terra”) anziché come laminaccia fondante del totalitarismo… l’assoluto disprezzo per la vita spacciato per Bene, ordine mondiale, che comincia a dispiegarsi pienamente solo ora che la Democrazia si disvela sempre più come menzogna, truffa, inganno, vernice dorata sulle scorie… l’antico logos pienamente realizzato nel suo principio mortifero.
Dopo Hiroshima
l’in-dividuo di Cicerone
(evolutosi nei secoli
fino a diventare,
da liberto,
da famiglio,
da valvassino,
da figlio minore
escluso da privilegi e successioni,
da bottegaio,
un sog-getto privato,
un unico con la sua proprietà)
è ritornato ad essere a-tomo,
ma dividuabile
in reazioni a catena
incontrollabili,
principio ambivalente
di schiavitù universale
e della fine del sistema,
la posta più alta,
paradigma
del rischio imprenditoriale.
Atomo con
le sue fissioni,
le sue fissazioni,
le sue fiction.
La paura della bomba
che imponeva una
pace armata,
una guerra fredda,
sui due blocchi
che si spartirono il Mondo,
sembra essere scomparsa,
ma è sempre lì…
catastrofe sospesa,
manto nero disteso
sugli infiniti conflitti locali,
sulle operazioni di polizia,
sempre più crudeli,
sempre più insensate,
sempre più estese…
morte nelle nostre tasche,
morte nelle nostre teste,
schermi a bassa radiazione,
un gesto virtuale
un clic…
lento processo di sparizione
per rimuovere la minaccia
di una sparizione improvvisa.
E’ il vuoto stesso
del luogo della Verità,
di Dio, del Potere,
dell’universalismo
imperiale e cristiano,
che non ha saputo trovare
altra Forza
se non la distruzione totale
per poter giustificare
la persistenza del suo delirio.
Nessuna Democrazia moderna
potrà mai ricoprire
di astrazioni e “valori”
la contaminazione letale
su cui si è fondata.
E nessuna giustificazione
potrà mai esserci
per il canceroso ed orrido Truman show
e per i meta-Stati Uniti
che verranno.
Per porre un argine alla sovrapproduzione di segni, alla semiosi infinita, ecco, sulla falsa riga delle teorie di De Saussure, una nuova ipotesi di non-segno: l’in-significante fratto l‘in-significato(in questo caso, la funzione divisiva della barra si perde… salta l’in dell’in/dividuo al numeratore… liberando – o, viceversa, trattenendo, compattando – quelle possibilità, quelle tensioni, irriducibili alla funzione segnica… in una sorta di catatonia espressiva…).
(Da quale abisso o zero assoluto mai potrebbe emergere questo “senso”, questa gravità negativa, questa re-pulsione dell’essere, questa freccia, questo -getto?).
Solo l’in-significabile non-segno potrebbe cingere d’assedio e stanare le Strutture e le Funzioni (rispetto alle quali si definisce un segno)… ciò che appare insensato di per sé non basta… è infatti relegato alla religione, all’arte, alla magia, alla poesia… tutta robaccia sbavante, assolutamente organica… (ancora materna?… che fa lingua in bocca ad una lingua madre?).
L’a-linguistica (l’a-lingua non è “lalingua” di Lacan) libera il senso del non-segno.
(Artaudparlava di uncorpo senza organi).
L’inorganico (*) si muove… “parla”.
Municare invece di co-municare.
(*) …non il “referente”, in quanto non riferisce proprio niente alla polizia del segno… (niente banconote segnate, né alcuna firma) è una piega che non si s-piega… un labirinto che si invagina, si apre e si chiude, prima che qualcosa si muova, pensi o parli.
PS: Con l’a-linguistica si allunga la serie delle scienze e delle ideologie da me inventate o abbozzate (che molto probabilmente mai si studieranno in un’uni-versità… essendo più che altro di-versioni, di-vertimenti…): psicanalogica, munismo, dividualismo, de-capitalismo, ecc…
E insomma, a scanso di equivoci, affermiamolo in modo definitivo:
– Non siamo “persone”…
– Non esiste un’anima individuale o indivisibile (non esiste un anima, punto)… animelle? No, forse non ci siamo s-piegati…
– Non c’è differenza, barra di-visiva, significante, tra movimenti animali e moti dell’anima, ma continuità, come su un nastro di Moebius… ci si dividua e, solo dopo che ci si è piegati, ci si s-piega, ci si individua…
– Come in ogni labirinto (anche impossibile, mutevole), è il percorso che fa la conoscenza, non la conoscenza che fa il percorso.
– Capito coglione di un Teseo? al centro non c’è nessuna Bestia Mugghiante da uccidere… Hai perso il filo di Arianna, il filo della spada di castra-tori, il filo del desiderio e del discorso tutto insieme? Tu sei il labirinto che si piega e si s-piega, si apre e si chiude… continuamente. Tu sei un campo di battaglia.
– Che stavamo dicendo?
[…]
– Lo diciamo una volta per tutte: non c’è niente di amorevole o razionale che tiene in vita l’universo… Amore, Ragione, Vita e Universo sono le più abusate e patetiche illusioni… tutte varianti, come anche l’Unità, la Totalità, della più grande delle menzogne, della Verità… Si fa di tutto per mantenere in vita artificialmente i rimasugli di umanesimo e antropomorfismo degli indivisibili individui spacciatori di religioni e dei seminatori di culture o colture infestanti… Siamo uno scherzo della natura, ripiegato, invaginato, annodato in uno degli infiniti eventi locali senza leggi assolute, un gioco miserabile, comunque di-vertente, che molti si ostinano a prendere per incontrovertibile, totale, unico, circondandolo di gendarmi e difendendolo fino alla morte… contro “se stesso”!…
Biffature, biforcazioni… stocastiche “biffures”, scriveva Michel Leiris, che però costruiscono un’estetica (a partire dalla propria forma)… materia presuntuosa, leggermente untuosa…
Ci sono tre eventi clou nella vita: la nascita, il sesso e la morte… ma l’ultima è l’orizzonte di non-senso che lascia dischiudere tutti i sensi possibili (inchiavardati alla nascita e al sesso e sempre ritornanti sul miele in cui si rimestano bisogni e desideri, conditi di miserabili astrazioni), che emergono, fulminei, come un singolo senso alla volta (o quasi) nella scena della coscienza, la grande semplificatrice…
Per questo (oltre che per la resurrezione del valore) si sono costruiti cristi-zombie che ascendono in Cielo e altre storie inverosimili… per glorificare un universo sensato che non c’è.
Marxisti senza “lotta” e molto “di classe”… molto hipster, sempre in prima fila a dire la loro sui blockbusters… – Senti cava (con la evve moscia), che danno al Valle?
Contro l’umanismo vero o presunto di Marx – origine della critica e critica dell’origine.
Non si può criticare il capitalismo a partire dai preconcetti di una visione integrale dell’Uomo e dalla posizione dell’artigiano (tutta la teoria del valore si basa su questo equivoco pre-capitalista… a partire da quale “origine” altrimenti potrebbe definirsi il lavoratore come “alienato” dai suoi mezzi di produzione?)… L’umanismo di Marx è davvero roba passata, irrecepibile… ridicoli anche i tentativi di soggettivare la macchina da parte di quei post-operaisti che ci vorrebbero lavoratori inconsapevoli anche quando scriviamo cacate su Facebook, per esempio… Trovo più interessante il superamento della soggettività, la macchinazione… la costruzione di nuove macchine con nuove regole del gioco… la divisione e dividuazione di individui e proprietà… l’abbandono della premessa del lavoro sociale… di una soggettività e di una proprietà di qualunque tipo…
Per una critica della “caduta tendenziale del saggio di profitto” intesa come contraddizione fondamentale e letale del sistema capitalista.
Evidentemente non è una questione di capitale variabile o costante e forza-lavoro… non siamo più nell’Ottocento…
Non tornano i conti nella massa monetaria complessiva… nelle operazioni finanziarie, nei nuovi titoli senza riserva… si sono impegnati di tutto per i prossimi secoli e per garantire il dominio armato imperialista del capitalismo (che non è la apparentemente innocua globalizzazione di cui cianciano le anime belle del G-20 o dei vari G-qualcosa…) su qualsiasi altra opzione (e per fottersi una buona quota di rendita finanziaria ovviamente…). E’ una controffensiva di classe, questa sì ben ricomposta a livello mondiale… contro tutti indistintamente (forse anche contro se stessa… perciò parlavo di schizo-capitalismo…).
Il vecchio problemino della “caduta tendenziale del saggio di profitto” è stato “risolto” in tutti i modi noti e sotto gli occhi di tutti… a partire dalle idee malsane di Von Hayek, Friedman… veri ispiratori della costruzione del disastro mondiale… (non che prima fosse tutto pacifico… NON LO E’ MAI STATO… SIAMO SEMPRE STATI IN GUERRA). E poi si è continuato con varie perversioni, trucchi ed escamotage padronali… Gli strateghi del Capitale sono sempre molto più lesti dei lavoratori evidentemente… basti considerare che è il gioco stesso del lavoro salariato ad essere una rapina… o un rapporto sado-masochista…
La caduta tendenziale del saggio di profitto“che pende, che pende e che mai non va giù” veniva brandita come una clava dai marxisti per chiudere le discussioni tra “compagni” a colpi di “scientificità” contro qualunque obiezione meno dogmatica… la Madonna è Vergine… punto!…
In effetti è un tale garbuglio!… e rintracciare le formule marxiane nel calderone degli indici attuali (che mischiano di tutto, anche elementi eterogenei) appare un’impresa titanica… La realtà è che hanno messo su un bel gioco di specchi (cumulando, per esempio, nel saldo primario, redditi e profitti, considerando solo i flussi monetari – fiscali – e neutralizzando qualsiasi conflitto già negli stessi indicatori che contano)… e credo che anche la strizza della caduta tendenziale sia parte integrante del gioco… è un po’ come la “pulsione di morte” freudiana, centrale nel godimento con la sua “coazione a ripetere”… o, più prosaicamente, come un dito nel culo durante una fellatio… Se vuoi che il capitalismo risorga (o torni in erezione), parla della caduta tendenziale del saggio di profitto…
Come suggeriva qualcuno, sembra che l’ingegneria economica del marginalismo e le guerre strutturali, divenute neutro modus operandi, abbiano tamponato la falla (probabilmente il capitalismo è questo tappare i buchi, questo procedere nella direzione del rattoppo)… e non credo che le cose si risolvano in modo così economicistico, con una semplice contraddizione interna che giunge ad un breakpoint, ad un punto di rottura… come, in psicanalisi, con la rivelazione e l’emergere di un trauma rimosso non è che si guarisce dai sintomi, come sostenne inizialmente Freud…
La mia attitudine analogica, poetica (comunque non “soggettiva”, “creativa”, “sensibile”, “umana“, ecc…) mi porta a rintracciare un’episteme che taglia trasversalmente la divisione dei saperi: caduta tendenziale (in economia), pulsione di morte (in psicanalisi), entropia (in fisica) funzionano sistemicamente in modo analogo… come anche: i buchi neri al centro delle galassie (ipotizzati in astronomia), il noumeno (nella filosofia di Kant, Schopenhauer), ecc…
Ma non è un metodo che s-piega (ammesso che si riesca ad aver ragione di metafore e immagini)… è più una visione… una piega pre-scientifica, pre-categoriale (ma “pre” nel senso che determina, certo a posteriori di un processo di trasformazione “materiale”, la costruzione simbolica che segue… del resto come si può non essere grossolani in un mondo che confonde – e imbroglia – con la sua incompetente ragioneria di stato, con la sua complessità labirintica?).
Il gioco degli immaginari è senz’altro più distruttivo/costruttivo e deformante dei giochi simbolici (che, prendendosi e prendendolo sul serio, nulla cambiano del paradigma dato). La stessa realtà (vivente o meno) sembra muoversi mutando, ricombinando, e deformando i parametri dati… eravamo, noi dividui, listrosauri nei tempi durissimi del primo triassico, dopo la grande estinzione… ce lo dicono i buchi delle nostre tempie, per esempio…
Resta solo il sospetto che io parli, come la schiuma di un’onda, già a partire da un nuovo mostruoso paradigma economico pronto ad essere sussunto dalla Grande Testa, dal Grande Caput del capitalismo…
Si svegliano marxisti e si addormentano piddini…
Per i borghesucci di questo paese la crisi non è poi così grave… e per alcuni effettivamente non lo sarà… i più disgustosi sono i radical chic o gli “alternativi” che si atteggiano in pose da difesa del Lavoro (che chiamerei “collaborazionismo”) o dell’Ambiente (il delizioso software in cui si muovono, si intende…) non capendo di essere peggio dei peggiori reazionari… Se la plebe, imbarbarita dalle loro austerità di facciata o da anime belle, arrivasse a bussare alla loro porta, minacciando il sacro diritto della loro proprietà, non esiterebbero a prendere il fucile, chiamare le forze dell’ordine (loro… “nuovo” o vecchio che sia), invocare i droni, lasciar manganellare, torturare, accoltellare…
Sulla “Rivoluzione” e le “lotte”.
Insomma il problema in Italia è questo blocco che virtualizza il cambiamento, sterilizzandolo, confermando all’infinito le stesse cose, gli stessi rapporti sociali…
Se esistesse una “sinistra”, dovrebbe captare le capacità produttive di chiunque e liberarle dalla visione aziendale… Sono decenni che sono solo buoni a parlare e dividersi in fazioni, senza progettare mai nulla di concreto, di reale… nessuna filiera produttiva ordinata secondo nuove relazioni (che non siano di sfruttamento, ricattatorie), nessuna rottura dei rapporti esistenti… se non dai da mangiare e vivere, istituendo nuove pratiche, per forza poi scompari, “sinistra”!… non si vive di “comune” e parole d’ordine a scoppio ritardato di vegliardi autonomi circondati da (relative) “moltitudini” che ripetono slogan autisticamente… e poi: ancora a sognare la “Rivoluzione”? aspettare il Messia sulle barricate? le “lotte”???… non c’è più niente… dovrebbero ricominciare da zero o quasi… ma sono troppo contaminati dalla Cosa… feticci tra i feticci, preferiscono illudersi, perché sotto sotto sono del tutto borghesi e integrati… giocano a fare gli “alternativi”… gli “indipendenti”… i “marxiani”… per non cedere (come dovrebbe chi inganna e si inganna) alla disperazione e allo sconforto.
La caduta tendenziale mi ingrifa…
Proprio non capisco i marxiani… a me questa “caduta tendenziale del saggio di profitto” (per quanto affondi nella melma di “rimedi”, recuperi marginali qua e là e rischi capitali) mi piace proprio… Alcuni di loro insistono a fare le cassandre, ad avvertire la borghesia della sua disumanità, spaventandola con il declino inevitabile scritto nelle carte (ma sono truccate…) dell’economia, con il loro memento mori preferito, confidando forse in un deus ex machina, in una clemenza keynesiana che non ci sarà o in una ancora più improbabile auto-redenzione della “comunità” o dell'”umanità”, invece di giubilare di quella caduta e accelerarla con criterio… ecco: manca il criterio, la macchina di smontaggio dei giunti, dei rapporti, delle combinazioni… preferiscono ripetere la lezioncina della loro ortodossia… accompagnare dolcemente il declino, in una lentissima e tendenziale eutanasia… “dentro e contro” fino alla schizofrenia…
Se questa è una semiocrazia, la semiosi (che alcuni, come Peirce, indicavano come “infinita”) è una gran brutta malattia, il contagio che la fa proliferare…
Nell’emersione alla superficie dei simboli io mi auguro invece che vi sia un’embolia… Ho infatti scritto di embolon opposto al symbolon… Si dovrebbero stroncare sul nascere certi statuti (dell’io, del sog-getto, dell’identità, della coscienza, dell’essere, ecc). Ne conseguirebbe una moria di sub… (o del “sog-“ del sog-getto).
Peirce, citato da Julia Kristeva in “Semeiotikè”, così definisce un segno (implicando una struttura triadica, idealistica… o, diremmo anche, edipica, monetarista, ecc…): “Il segno, o representamen, è ciò che sostituisce per qualcuno qualcosa sotto un determinato aspetto o in una determinata posizione. Esso si rivolge a qualcuno, crea cioè nello spirito di questa persona un segno equivalente o forse un segno appena sviluppato”.
Così l’individuo sopprime il dividuo (o il sog-getto il -getto)… con il “representamen”… (nella semiosi propria dell’economia, con il denaro… che per Marx è l'”equivalente generale delle merci”… merci che sono oggetti, ma anche soggetti, attraversati e condizionati dal rapporto sociale che li imprigiona… in superficie).
continuo il percorso intrapreso con la prima parte…
Nelle società del controllo, al contrario, l’essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d’ordine nel senso di pass-word, codice d’accesso, N.d.t.] mentre le società disciplinari sono regolate da mot d’ordre [parola d’ordine nel senso di slogan, N.d.t.] sia dal punto di vista dell’integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l’accesso all’informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali”, e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle “banche”. È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete”.
(da “La Società del controllo” di Gilles Deleuze)
Oggi non si può non partire dal dato di fatto che siamo dividui (ma nel senso di de-nominatori della frazione che io scrivo come in/dividuo)… e vi può essere controllo come l’esatto opposto (un percorso inverso: sblocco degli accessi, eventi imprevisti, cortocircuiti, ecc… o semplicemente qualcosa che non viene colto dai vari “programmi” e che potrebbe proliferare come corpo vivo all’interno e all’esterno di un sistema decomponente e in decomposizione). Già Baudrillard inoltre sottolineava (ne “Lo scambio simbolico e la morte” e “Le strategie fatali”) come gli “oggetti” statistici che siamo siano potenzialmente inafferrabili… giungendo ad ipotizzare una radicale e malefica estraneità (degli “oggetti”) al codice che pretende di considerare come dati delle esistenze probabili che non si danno affatto, ma che si sottraggono indefinitamente.
Il dividuo comunque, per me, come ho scritto più volte, viene da molto più lontano (da prima dell’utile, da prima delle proprietà parcellizzate dal codice napoleonico, da prima del trionfo armato dei commercianti e dei pirati)… da prima delle speculazioni borghesi dei socialisti dell’800… da prima del colpo di mano che ha spazzato via dalla storia (ma una possibilità non praticata non si può escludere per sempre) una contraddizione presente già in epoca feudale… L’errore principale (a partire dall’800) è stato quello di aver sclerotizzato qualsiasi divisione e opposizione all’interno del paradigma del conflitto (apparente, simulato) capitale/forza lavoro… fino alla forma edulcorata che oppone gli interessi dell’impresa a quelli della della società (macchina umana ormai perfettamente “funzionale”… ma forse proprio per questo insufficiente e inefficace… poco estensiva… coperta corta che lascia liberi tutta una serie di profili, dividui appunto, per niente inquadrabili).
Come ho scritto altrove:
E’ ancora troppo forte presso i “rivoluzionari” di ogni specie (comunque borghesi) il mito del 1800 (della dialettica, dei moti, delle barricate, della Comune, dell’individuo, del socialismo, dell’idealismo, del materialismo, ecc…). La borghesia si era già messa in moto secoli addietro (almeno dal 1400)… l’Ottocento capitò a giochi già fatti.
Nell’iscrizione del dipinto di Bruegel (“L’Adulatore”) è scritto qualcosa che si potrebbe tradurre con: “Dato che ci sono un sacco di monete che sgusciano dalla mia bisaccia, il mondo intero mi sguscia nel culo”.
…per coltivare e costruire successivamente in modo complesso… (sovrapposto alla e) divergente dall’attuale Grande Macchina. E’ come nei sistemi operativi attuali, che girano su macchine virtuali, mentendo sull’hardware fisico (sconfinando continuamente)… simulando che vi sia una sola macchina (hd) quando sono di più o simulando più macchine in una sola (un solo hd)… questa fase di sviluppo software, dovrebbe mirare (a differenza degli attuali sistemi di simulazione e di menzogne operative) a costruire hardware secondo altre regole non centralizzabili o socializzabili… Impedire che vi possano essere “soci” e “società”. Dunque spazi di privazione e di spettacolo (cioè spazi privati e pubblici).
(Si intenderebbe con ciò andare ben oltre sia il sol dell’avvenire socialista, che le distopie tecnologiche liberali, oggi tendenti a fondersi e a scambiarsi i reciproci ruoli purché si resti d’accordo sul regime totalitario dei rapporti sinora consolidati).
Suonare strumenti (a corda, nel mio caso) è una danza di dita cui a tratti si potrebbe andar dietro con la voce… (chiaramente una danza sulle scale imparate e possibilmente dimenticate mentre si sta suonando… la mente è sempre da un’altra parte, per me, quando si suona).
Viene prima il ritmo (lo sviluppo regolare e ciclico nel tempo di un movimento o di un legame che non distingue ancora tra musica e rumore) poi la simultaneità armonico-timbrica entro cui si sviluppa la melodia (l’emergere distinto delle frequenze regolari e in relazione armonica dal caos del rumore)… che si connette con la voce solo alla fine, deformando laringi e muscoli facciali, rendendo ciò che chiamano “soggetto” una specie di onda formante dell’onda portante (che si produce come ho descritto all’inizio, spingendo collateralmente alla secrezione, circolazione e consumo di umori di ogni tipo).
Questo non vuol dire che ciascuno degli elementi autonomizzati che ho descritto (ritmo, armonia, timbro, melodia, voce, espressione) non possa riformare l’intero processo a sua somiglianza…
L’estasi (il sono-fuori-di-me, nel senso del suono più che dell’essere).
Non sono “consustanziale” al sistema che contesto (non riconoscendone neanche la “sostanza”). Il sistema che fa sì che il mondo sia a noi comprensibile, la razionalità dell’Occidente e del capitalismo globale, si sovrappone ma non coincide col (sog)getto che sono. Non vendo i miei sogni, la mia (in)coscienza, la mia carne, le mie molecole, anche se son già pronti a prelevarmi DNA o a espiantare i miei organi! C’è qualcos’altro che resiste, c’è tutto che resiste (e non è il lacaniano oggetto “piccolo a”, nè un tag “a”). L’eccezione che (io) sono (o suono?) al sistema (anche se partecipo alla sua sostanza ovvero alla sua finzione, al suo spettacolo) non verrà più reintegrata. Come non sono reintegrabili le stelle e l’intero deserto che è la Realtà, per una posizione pur così intransigente e desiderosa di reinvestire.
Chi suona non sta suonando e dimentica quel che sa… le mani si muovono da sole… è un esercizio di dissociazione, di spossessamento… dell’autore, del soggetto, del musicista, ecc… che dovrebbe essere suonato prima di suonare… “Io sono”, nel senso di io suono…
Suonare è sempre risuonare (è un fenomeno senza origine o fine, senza alfa & omega … ri-suoniamo sempre… neanche il silenzio è silenzio finché è possibile udire, finché c’è qualcosa).
Il silenzio del silenzio, quello definitivo, comunque mi atterrisce… morire non è come addormentarsi… non mi si può dire “non è niente”… è niente… Come accettare allora di vibrare nonostante tutto (o il niente, che è lo stesso)?
Come non capire che vivere è un errore (un errare) che si paga infatti con la morte? forse giusto morendo… o vivendo… che è la stessa cosa… è quel che facciamo, in effetti… oscillando… (nessuno scampo gnostico).
Un brevissimo-lunghissimo riverbero di in-finito… piacevolmente incosciente, dolorosamente cosciente, dolorosamente piacevole, piacevolmente doloroso, incoscientemente cosciente, coscientemente incosciente, ecc…
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Con i miei amici dell’ex Volo Notturno, Fabio (autore della linea di piano nel video qui sopra) e Antonello, c’è stata una bella session il 26 dicembre 2012 (purtroppo senza testimonianze audio o video)… erano anni che non suonavamo insieme ma è stato come se non avessimo mai smesso di suonare.
Il metodo consiste in questo: uno comincia una struttura armonico-ritmica, l’altro la perturba con controtempi, rumore e dissonanze, poi si riporta ad un compromesso d’ordine per poi ricominciare con il disturbo… creare il vuoto per far infilare l’altro per poi, una volta che l’altro lo riempie, crearne subito un altro… il movimento sconnesso che consegue è più o meno come l’eracliteo: “Dai discordi splendida armonia”.
«Nietzsche in Umano, troppo umano accenna ad “un’autoscissione dell’uomo” attraverso la quale “l’uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un desiderio, un risultato più di qualche altra cosa di sé”, in questo modo tratta se stesso “non più come individuum, ma come dividuum”»
(mentre il suo tempo si sta dissolvendo, i morti, gli espropriatori del lavoro morto altrui, i borghesi che verranno, sottraggono al sovrano il suo oro… il patrimonio “immobile” diventa “mobile”… troppo mobile per un sovrano così ebete… che ci somiglia tanto… o sembriamo più degli scheletri? l’uno e gli altri… il fottuto e il fotti-fotti generale…)
Qualche secolo fa, nell’ambito di questioni relative alla successione e alla divisione delle proprietà e dei privilegi, era sorta la necessità di distinguere tra individui (gli aspetti “intellettuali” e “spirituali” di cose e persone) e dividui (gli aspetti corporei di cose e persone)… con i primi evidentemente privilegiati rispetto ai secondi da secoli di religioso lavaggio del cervello… Questo percorso si andò intensificando nella trattatistica giuridica specialmente nel periodo che va dal 1500 al 1700 e nelle regioni europee dove era più evidente l’emergere di quei soggetti che avrebbero dato vita alla moderna “borghesia”, evidentemente interessata alla de-territorializzazione del valore, all’autonomizzazione del valore di scambio, non più legato alla terra o alla nobiltà del lignaggio, quanto alle ricchezze equivalenti via via più facilmente e velocemente trasportabili, se non falsificabili… Questo libro è del 1670. O c’è anche Scipione Gentili… con questo libro o quest’altro: “De dividuis et individuis obligationibus” (pag.89). Questo schema è del 1538… e c’è anche questo libro del 1650.
La divisione delle proprietà e l’affermarsi della proto-borghesia rendeva evidentemente necessario privilegiare l’immateriale indivisibile sul corporeo divisibile… Già il paradigma metafisico dell’individuo, inteso come anima indivisibile e immateriale, teorizzato da S. Tommaso, dava un’impronta stabile a questo modello, che intendeva l’essere umano come un composto appunto indivisibile di materia e forma, in cui quest’ultima, che sarebbe l’anima appunto, dominava il complesso degli elementi corporei col suo principio trascendente, la sua sostanza spirituale, semplice e inestesa, analoga a quella divina… libera di intendere, volere e… di far quel che vuole, aggiungerei io, proprio come un despota feudale o un sovrano con i suoi sudditi… il cui privilegio soprattutto (più che l’anima) sopravviveva al corpo… nelle successioni e nelle eredità.
E qui, tra i nostri contemporanei, alcune curiose riflessioni di Caracci sulle implicazioni metafisiche e politiche dell’individualismo borghese che ridefinisce contrapponendovi il “dividente” e “dividendo”…
Alcune citazioni latine a casaccio dai trattati citati:
“Est autem Dividuum, res quae apta nata est, ipso iure cum aliquo eius effectu partes accipere. Individuum, res, quae apta non est, ipso iure cum aliquo eius effectu partes accipere”.
“Omne illud in Legibus dicitur dividuum, cuius pars respectu partis tantam prestat utilitatem, quantam totum respectu totius”.
“De caetero partes recipit dominium, sed pro indiviso, quae magis habentur animo, quam corpore, quod vel maxime cernimus in re duobus pluribusque communi, cuius quidem singuli in solidum domini non sunt, cum naturalis ratio satis demonstrat hoc fieri non posse, ut si unus habeat totum jus libere disponendi de re aliqua, quod dominii est, alterum quoque eodem jure gaudere, sed singuli partes eius rei habent, ita tamen confusas et commixtas, ut una ab altera separatim cerni tangique nequeat, h.e. indivisa”.
L’AUTONOMIZZARSI DELL’INDIVIDUO E LA RIMOZIONE DEL DIVIDUO
Ah, questi junker… che continuavano a porsi, con più cinismo, l’antico problema di spartirsi gli schiavi ereditati… “li seghiamo in due non traendone alcun vantaggio? li lasciamo vivi sotto un dominio incorporeo individuale o ne dividiamo i servigi?”.
«Recte dividimus contractus in dividuos et individuos. Utrum autem stipulatio, vel alius contractus dividuus sit, vel individuus, ex natura rei in contractum deductae, vel facti promissi aestimandum erit»
(da “De divisionibus contractuum” di Torrascassana)
Prima dell’invenzione del “contratto sociale” era l’in/dividuo stesso ad essere oggetto di contratto… (si può notare una vera e propria rimozione della trattatistica giuridica pre-moderna – in un arco, come dicevo, che va dal 1500 al 1700, con propaggini fino al Terzo Reich – la quale mira a regolare diritti di junkers o di nuovi feroci proprietari di fondi che cominciavano ad armarsi di obbligazioni, note di banco, fideiussioni, aggirando l’odioso maggiorasco, secondo Marx “il senso politico della proprietà”, o i fidecommessi che tutt’ora sopravvivono con il nome di “trust”, ecc… pur continuando comunque a far “religiosamente” riferimento all’interpretazione metafisica dell’individuo della scolastica… che perdura tutt’ora, anche se secolarizzata, parcellizzata come le proprietà fondiarie nel codice napoleonico… Cicerone che scriveva, riferendosi a persone viventi, di “dividuus” e “individuus” era un avvocato, del resto, prima e oltre che un filosofo… e nel diritto romano la distinzione tra dividuum e individuum riguarda più che altro le obbligazioni). Nelle citazioni in latino che ho disseminato qua e là e nei trattati (che non sto qui a tradurre…) è chiaro che la nascita del debito è connaturata al concetto tutt’altro che astratto di individuo (proprietario, possessore non solo di beni ma anche di /dividui viventi, come i servi per esempio, parte divisibile in caso di successioni o debiti… col corollario, paradossale ma non troppo, della minaccia della shakespeariana “libbra di carne” da asportare sempre in agguato: se il debito è inesigibile, si divida l’individuo… che in fondo tale non è, anche quando lo è, se non formalmente).
La durezza di questo e arbitrario passaggio violento dall‘individuo al dividuo (incombente come una spada di Damocle) si è ammorbidita col tempo, dopo una fase di crudele “accumulazione primaria”, in un’articolata “divisione del lavoro”… più simbolica e meno traumatica…
Dalle concezioni degli Junkers, secondo Engels (e Marx), avrebbe preso spunto anche quello che il malefico duo dileggiava come “socialismo utopistico” (di Proudhon) e che ipotizzava di trasformare il valore in ore di lavoro, saltando a piè pari (in questo i due arrogantoni avevano una certa ragione, comunque molto discutibile) le contraddizioni in esso inscritte: “I buoni di lavoro di Rodbertus mentono dunque nel modo più assoluto: ma bisogna appunto essere un Junker della Pomerania per immaginare che possa esistere una classe operaia la quale trovi conveniente lavorare 12 ore per avere un buono di lavoro di 4 ore”. Comunismo, socialismo o capitalismo originavano tutti comunque da un possibile differente accordo /dividuale rimosso… senza il quale non vi sarebbe stato né plusvalore/forza-lavoro, né “divisione del lavoro” come la intendiamo modernamente… Tesi classicamente comunista marxiana (di un Marx ancora un po’ troppo hegeliano in questo) è quella secondo cui o c’è la divisione del lavoro, con tanto di “individui empiricamente universali”, o c’è “la vecchia merda” [MEOC, V, p. 31], la lotta per l’accaparramento di risorse, il dispotismo feudale (similmente, le democrazie totalitarie – quelle che si autodefiniscono liberali e moderne – si fondano sul pericolo del “peggio”, delle dittature, delle guerre, ecc… pur essendosi macchiate di crimini orribili). Non si pone mai un’altra possibilità…
LAVORO VIVO/LAVORO MORTO
Schrödinger, come è noto, scrisse del paradosso del gatto vivo/gatto morto… Cosa c’entra con l’in/dividuo?… ma d’altronde, cosa c’entrano con tutto ciò Salomone e Karl Marx?
(Nella vicenda del giudizio di Salomone vi è il paradosso del dividere una proprietà vivente… in questo caso è l’elemento terzo a trionfare, la spada, sulla disputa “territoriale”, l’emergere di una legittimità “naturale” mediante la minaccia della violenza, di una “divisio naturalis” nascosta, mediante una “divisio civilis” basata sulla minaccia del potere… tutto il meccanismo è comunque innescato dal concetto di proprietà… del figlio vivo/morto… I marxisti, per esempio, difendono il “lavoro vivo” allo stesso modo della madre disperata della vicenda biblica… dimenticando la sussunzione originaria, l'”obbligazione”, la distinzione delle identità, delle proprietà, dei ruoli “naturali” degli attori sociali, come premessa della divisione del lavoro… Insomma: invocherete e a viva voce le vostre catene, pensando di difendere un diritto acquisito… Altra questione: che ci guadagna il regno di Salomone? come estrae un “plusvalore” primitivo da questa vicenda?… Avrà rafforzato un principio di divisione dei compiti e delle proprietà, base imprescindibile per l’estrazione del plusvalore… A quei tempi andava tutto al regno, con le sue politiche d’alleanza, di prestigio ostentato in oro e di appropriazione anche improduttiva delle ricchezze, come osserva Bataille, ne “La sovranità”, a proposito di feudalesimo… in tempi moderni va tutto agli innumerevoli padroncini e, con svariate quanto opache mediazioni, alla rendita finanziaria… Complimenti a Salomone… “shalom”, appunto… la stessa “pace” che regna ancora adesso… Nell’era di Schrödinger però, forse la questione del figlio vivo/morto, del lavoro vivo/morto s’è un po’ complicata… stiamo lavorando? ci stiamo divertendo? ci appartiene qualcosa? non ci appartiene nulla? guadagnamo davvero qualcosa dal lavoro altrui? o perdiamo tutto?… probabilmente entrambe le cose… e questa legge vale anche per i grandi capitalisti, che pensano di farla franca… viviamo un’esistenza probabile… o improbabile…).
Più o meno la stessa epoca (1500-1700) che io indico come il periodo di trasformazione dell’individuo (e del “dividuo”) da obbligazione a soggetto per eccellenza del diritto privato e proprietario (come anche dell’esperienza filosofica, estetica, sensoriale, ecc)… Il “caput” del capitale una volta si decapitava (l’individuo era divisibile, con la violenza se occorreva)… non era il profitto di alcuni (che non erano il sovrano) a contare, ma solo quello (soprattutto simbolico, in termini di prestigio e supremazia) del re. Mano a mano gli intermediari e gli organi autonomizzati poi hanno preso a smembrare il regno, prendendosi ognuno un po’ di sovranità per sé e dando vita a questo “uomo privato”, questo “idiota” aristotelico che chiamiamo “individuo” (inteso anche come cittadino, borghese… beneficiario di diritti, sempre meno obbliganti), nel senso che non divide il suo piccolo gruzzoletto, il suo diritto relativo, la Merce o il Denaro che egli stesso è e che occulta irrimediabilmente dentro e fuori di sé il /dividuo… la traccia della sua antica schiavitù (…come anche della sua possibile libertà).
LE PLANARIE SONO /DIVIDUI?
Come le teste dell’Idra, come il Due nell’Uno, come il Doppio perturbante freudiano… ci sono anche questi vermi piatti, le planarie, che non fanno sesso… le tagli e si riproducono (c’è un video giapponese delirante in questo post)… o comunque si riproducono per scissione longitudinale!…
Anche Escher ne fu affascinato e le fa muovere, viventi e curiose eccezioni, tra solidi platonici:
Qui il senso della parola “individuo” si perde del tutto… come quando, prima di essere embrione e dopo essere stati morule, eravamo blastule… (pieni cioè di blastomeri… come le planarie… poi però ci differenziamo un po’ troppo, decadendo nella forma umana). Per di più, senza questa fase da vermi piatti, manco ci saremmo attaccati a parassitare l’utero di una donna… che infatti sanguina a causa di questo ancoraggio…
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.
La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”? Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane.
Dio non è mai esistito (dunque non è mai morto…) se non come Denaro. Non condivido molto l’ipotesi “teologico-politica” di Agamben e predecessori… Più che di pseudoreligione parlerei di paracul(t)i.
Prima del pieno dispiegamento del software “Dio”, poteva giusto esserci qualche sovrano paranoide che si arrogava poteri arbitrari di surdeterminazione dei viventi, delle loro regole del gioco e dell’esistente, imponendoli tramite un codice linguistico… (che poi si sarebbe meno misticamente e più specificatamente, con l’estendersi della divisione del lavoro e del “debito infinito”, evoluto nella forma Denaro).
Rimarchevole nella stessa intervista questo passaggio (che collego ad alcuni temi già espressi in questo post, anche se, a differenza del prof., personalmente non sarei così interessato a difendere la “democrazia”, come ho scritto qui e qui, per esempio):
“Si direbbe che oggi lo Stato consideri ogni cittadino come un terrorista virtuale. Questo non può che deteriorare e rendere impossibile quella partecipazione alla politica che dovrebbe definire la democrazia. Una città le cui piazze e le cui strade sono controllate da telecamere non è più un luogo pubblico: è una prigione”.
Il punto è che il ritorno del rimosso, ovvero l’ipotesi “rivoluzionaria” post-freudiana che una produttività bruta, la libido, possa sollevarsi contro i tabù e le prescrizioni della “civiltà” modificandone le strutture, indica in realtà le risorse materiali (non impiegate direttamente nella produzione ma nel consumo distruttore di risorse) le quali dovranno essere riprodotte successivamente in qualche modo (che guarda caso è sempre lo stesso, questa sorta di immaginario “motore a due tempi” diviso tra produzione primaria e secondaria, economia e politica, struttura e sovrastruttura, ecc…). Spesso invece questo dispendio (è il caso di GG Allin, ma anche dell’ordine circense del porno, come dell’attuale modo di produzione) diviene immediatamente produttivo, dispositivo per capitalizzare (spettacolarizzare, simulare, feticizzare, surrogare) fino all’estremo (se non fino alla morte) la vita… precarizzandola, privandola progressivamente di qualunque possibile relazione, progettualità e strategia, chiedendo un “di più” irrecuperabile, imponendo sottilmente una sorta di obbligo debitorio “individuale” (“idiota” in senso aristotelico) che ha sempre strisciato nei secoli tra dispotismi e democrazie…
Considerazioni postume (7 settembre 2012)
Ciò a cui teniamo di più e che riteniamo al di fuori del “sistema” o contro di esso è già capitalismo.
Non c’è una natura o una sessualità che sia estranea a questo rapporto sociale.
L’importante è cosa si monta e come (anche nel senso della sequenza di montaggio). La natura e il sesso sono un artificio.
Pensare (e vivere) a partire da questo. Nessuna nostalgia di una “sostanza” o di una “origine” perduta ha più senso. Ciononostante c’è sempre un fuori immaginario (che diventerebbe reale) da mettere in moto per scatenare i giunti della Grande Macchina.
“In tutto il territorio dove regna il despota , dai confini fino al centro: tutti i debiti di alleanza vengono convertiti nel debito infinito della nuova alleanza, tutte le filiazioni estese sussunte dalla filiazione diretta”.
(A proposito della macchina dispotica, cristica o tirannica, ne “L’anti-Edipo” di Deleuze-Guattari, pag. 236)
Dalla tribù al tributo… Tutti figli del despota, tutti figli di Dio… Più avanti, con la dissoluzione del dispotismo feudale sotto i colpi degli esclusi dal maggiorascato, si passerà dalle obbligazioni ai diritti… e ritorno (dal 1400 circa al 2012). Parentesi di un paio di secoli quella dei diritti (proprietari soprattutto, privati, pubblici o dell’Uomo che siano), finzioni giuridiche, temporanea concessione che ora un po’ alla volta viene revocata… ed evidentemente occorre che siano rispettati degli obblighi… che la malia degli atti giuridici(non delle “persone”) che siamo in quanto individui, dei nostri “privilegi”, della sovranità anche se nulla che ci anima, ci venga ritorta contro.
Il “Giudizio Universale” sempre rinviato, ingolfato ormai in una derridiana “struttura di rimando generalizzato”, è quel che si potrebbe definire il “debito infinito”… La questione “economica” della “crisi” è cioè in realtà una politicissima questione di “privilegi” (si badi bene: non solo di una minoranza sfruttatrice, paranoica e avara, ma anche delle masse di arroganti prostituti protetti dai protettori globali) campati in aria, un po’ come come questo dio maschio-femmina che aleggia sull’Abisso, nominando, in questo caldissimo scorcio di fine estate, dei fenomeni meteorologici con nomi a casaccio come Caligola, Lucifero, Beatrice (suggerendoli infine tramite Spirito Santo ai falsi profeti delle previsioni meteo…).
E costui pretenderebbe pure di giudicare? Chi? Perché? Cosa avremmo fatto a parte respirare o rantolare per qualche decennio? Gli interessa qualcosa?
Ma Scalzone legge “Per farla finita col giudizio di Dio” di A. Artaud:
Cos’è più importante per questo “individuo”, obbLIGATO e reLIGATO da obbligazioni e religioni, comunque legato e imbastito, giudicato e indebitato? Cos’è più importante? Essere “sog-getti” al giudizio del despota o non pagargli tributi? (Già da tempo non siamo più sog-getti… dunque…).
Cosa sarebbe meglio che finisse? il “giudizio di Dio” o il “debito infinito”? Senza giudizio finale (che è comunque una montatura fantasmatica) si potrebbe in effetti (anche paradossalmente, schizofrenicamente e artaudianamente) continuare a campicchiare del proprio nulla condensato (di “vagina cotta in salsa verde” direbbe il poeta)… ma senza debito, non funzionerebbe più niente come prima… che è decisamente una cosa più auspicabile…
Non pagare più… né in tempo di lavoro, né in tributi… Estinguere il debito… de-capitalizzazione.
Copertina col vecchio titolo “Aforismi da Facebook”
In un centinaio di pagine (a 0,99 € epub o kindle, ma contattatemi pure per email se volete aggiornamenti su questo work in progress e su altri progetti che verranno…) una sorta di compendio non sistematico, ma abbastanza indicativo dei miei pensieri e delle trasformazioni degli ultimi anni… tuttora in corso, tuttora faticosamente leggibili a causa di un’ambiguità degli eventi che impedisce interpretazioni definite… Qualche puntello comunque c’è… e nel vortice qualcosa si intravede… Qui l’introduzione:
Gli aforismi di questo ebook provengono per lo più dalla mia bacheca di Facebook… sono un po’ come profughi da quella piattaforma… testi polverizzati, asistematici, ridotti a memi dal tritacarne del personalismo forzato, delle semplificazioni statistiche, computabili, dell’attuale capitalismo cibernetico…
…ma che possono anche essere scanditi, s-logati come slogan (“Né stato, né mercato”) o masticati al di là dei luoghi in cui si riproduce la cultura (dal cŏlĕre latino derivano, con analoghe funzioni e finzioni: la colonizzazione, i culti o, con una simpatica paretimologia, la scuola, ecc…).
Si disegna un processo di disgregazione del sog-getto contemporaneo (a favore dell’insieme dei viventi) attraverso tre capitolazioni:
Nella prima si prendono le distanze dalla riduzione binaria di ognuno di noi in “I/O” (il nuovo modello di coscienza input/output… inteso come interruttore fibrillante, velocissimo, processore di circuiti integrati, interfaccia quasi meccanica del dispositivo digitale…).
Nella seconda, “La crisi”, si affronta il processo di trasformazione sistemica in atto, nel senso dei percorsi di radicalizzazione e di progettazione del nuovo, senza ressentiment ein senso anti-capitalista, a partire dalla crisi della forma-stato, fino ad ora sospinta proprio dalla globalizzazione (dalla centralizzazione e monopolizzazione meta-statale) del mercato capitalista.
Nella terza, “-getti” si tenta di uscire fuori di sé, s-logando i sog-getti in -getti… privando i viventi del prefisso che li assoggetta ad esseri inesistenti, puramente funzionali al sistema… pensato fin dalle sue finzioni metafisiche a dismisura d’uomo. Si pone cioè la questione del dividuo… denominatore di finzioni tattiche, -gettato nel cosmo, portatore di spore e ife fungine disgregatrici, ibridate e ricombinabili.
Ecco… più che di differenza, da contrapporre all’identità (come è andato di moda nella seconda parte del ‘900) si dovrebbe parlare di di-vertimento, di-versione… una cosa da una parte, una cosa dall’altra… non c’è nulla di pro-duttivo nella realtà, nulla da ducere, condurre, a favore di (“pro”) qualcuno… tutto alla fine diverge. In definitiva, “si muore” non è “si vive”… non c’è sintesi possibile…
Similmente “lavorare” dovrebbe mutarsi nel più vago “fare qualcosa” (che, oltre ad essere divertente e divergente, ha anche un senso di e-mergenza…), senza im-piego (del tempo, della vita, ecc…), senza di-visioni del lavoro, divise, ecc…
A rigore, più che di in/di-vidui (parti di un accordo che si affrontano de visu, per sezionarsi, recintarsi vicendevolmente, tenersi separati e a vista…) si dovrebbe parlare di viventi di-versi, di-vertenti…
Tutto il contrario di quel che si vede in giro…
La di-versione inoltre, non è un de-lirio, non esce da un solco (lat. “lira”) precedentemente scavato… è l’a-venire , l’a-ventura, di nuovi versi… di-vergenti dall’idea di unicità inscritta per esempio nei termini “individuo”, “uni-verso”, ecc…
Il di-vertimento è il principio del gioco (e il gioco del principio).
Laddove il giogo con-giunge due giunti, il gioco li dis-giunge, di-vertendoli, sottraendoli alla loro funzionalità sistemica, macchinica. In un certo senso, la pulsione di morte è di-vertente… ed è alla base della libido, della libertà di movimento e d’azione di qualcosa prima che vi sia una com-binazione, una con-giunzione, l’in-vista-di (l’individuazione di) un utilizzo, di una funzione… prima cioè che gli insiemi si inter-faccino in un sistema.
Un accordo di-vertente e di-vergente tra in/dividui.
In genere non ho un‘identità… ma soprattutto non capisco perché tutti questi giuristi, psicologi, medici, preti, militari, sociologi, economisti, perfino quelli dell’ONU (riconoscendo il gender a modo loro come ideologia normativa, anche per avere una scusa in più per intervenire col maglio contro le terre e i corpi ancora da colonizzare), vorrebbero entrare nelle mie mutande… Vogliono vedere da che parte pende?… eppure il cazzo è solo una cosa avvitabile e svitabile… come le lampadine, come la testa… (che sia libido o coscienza, sempre elettricità è… e da un punto di vista energetico contano molto poco i miei gusti… eventualmente l’intensità e la frequenza con cui consumo neuroni o spermatozoi… ma per fortuna, non mi hanno ancora attaccato a nessuna centrale… e non pago bollette su neuroni e sperma…).
Lo s-vitato.
Parte II
(Agli uomini…). Ogni volta che vi fate le seghe toccate il pene di un uomo… e c’avete pure i capezzoli che non vi servono per allattare… e una sutura sullo scroto che vi ricorda che avreste potuto essere donne…
E pure le donne… ma siamo sicuri che non abbiano temporaneamente un pene quando le penetrate? e che i penetrati (pene tracti) per farvi aspirare sperma a fiotti non siate voi? (PS: lungi da me rispolverare il cliché della donna vampiro e altri fantasmi cari anche al paranoico Strindberg, amico di Munch… Qui si parla di una lieve schizofrenia, liberata con una certa cautela, come antidoto ai comportamenti dei soggetti paranoidi predominanti… e che non intende assolutamente solleticarne i deliri).
Allego infine un mio commento su Feisbuk ripreso da FaS in un dettaglio che riguardava il “diritto naturale” nelle mutande…:
Discutendo a letto con la donna che amo lei mi faceva notare che alla base dell’aggressività maschile ci sia tanta “frociosità” repressa (si uccide la donna che non si accetta dentro di sé) e che per stemperare questa paura occorrerebbe confondere i ruoli e i gusti maschili, se non esserne indifferenti a livello di giudizio, più che rimarcare differenze con classificazioni (LGBT, ecc…) che finiscono poi col sovrapporsi alle categorie “merceologiche” del porno, per esempio… o si istituzionalizzano al punto da sollecitare l’attenzione, tramite CEDAW, dell’ONU (quella delle guerre “umanitarie”!…). Io rincaravo la dose dicendo che si tratta anche di personalità paranoidi che seguono regole (socialmente condivise, ahimé, anche dalle maggioranze “normali”, che si eccitano coi loro “valori”), seguono regole, dicevo, paranoicizzanti… penso all’addestramento dei parà, alle pistole ai vigili urbani, al protagonismo identitario, alla competizione, a quella tentazione residua, feudale, di “diritto di natura” che vorrebbe legiferare nelle mutande… Insomma bisognerebbe mettere i riflettori sul piccolo maschio paranoico… anche nella versione “soft”, ironica, sorniona, col “pensiero debole”, tipo Fabio Fazio… modello maschile che simula il suo essere pulitino e ubbidiente, timoroso di una sempre incombente e fantomatica censura, pur rimanendo incollato ad una posizione privilegiata, con la “segretaria” pseudofemminista spalmata sulla scrivania, che si permette (o meglio, le si concedono in trasmissioni extra) pure sproloqui contro il femminicidio, pur incarnando a livello spettacolare (il solo che conta in TV) i più stupidi cliché maschili… Mi è stato detto che “è una brava comica”… A me non fa ridere il modo in cui è sottoposta agli elogi, alle pacche sulla testa del maschio-padrone dello studio… Tutt* si sono concentrati su di lei… nessun* su quella testa d’uovo di Saviano o sul suo “Mangiafuoco” camuffato da uomo dimesso, Fazio…
Qui la mia replica a distanza al post di FaS:
Senz’altro il “diritto di natura” (preti, antiabortisti in tonaca e non, sindaci genuflessi, estreme destre, etc…) è molto fastidioso quando vuole frugare tra le mutande… ma aggiungerei che manco il “diritto positivo” scherza… neanche quello internazionale dell’ONU con la sua sclerotizzata idea delle “identità” di genere (anche quelle non allineate). L'”identità” di cui cianciava per esempio un Hegel era già molto osteggiata dal femminismo della differenza… (qualcuna scriveva “Sputiamo su Hegel”). Ora ci sono altre teorie che mettono in discussione sia identità che genere… Credo più che altro che sia un equivoco considerare come problematico non avere un’identità (scrivendo di “difficile ricerca di identità perduta, senza che si agevoli o istighi la tentazione di rifugiarsi nei vecchi valori”)… Io per esempio credo di essere tranquillamente privo di questa cosa… e non è questo che mi turba… forse è proprio l’Identità (di ruolo, di genere, di carta, di quello che vi pare) a disturbarmi… anche assai…
Lo so, è da un po’ che non scrivo in modo sistematico (ammesso che l’abbia mai fatto… del resto non devo dimostrare di essere degno di pubblicazione, quindi scrivo a vanvera, in modo incompleto, trascrivendo appunti, conversazioni, riflessioni, senza “bella copia”). Il web non merita di più… Se vi va, sistematevi voi i pensieri più tardi… non sono disposto a lavorare gratis al posto di nessuno… né intendo “criticare”, ovvero, differenziare ulteriormente i rifiuti culturali nei quali sguazziamo per re-immetterli nel circuito produttivo… Merda è, merda sia.
C’è un’eresia nel pensiero contemporaneo che parte dalla patafisica di Jarry (che aveva mostrato, pur essendo anarchico, come l'”anarchia” sarebbe diventata un atteggiamento borghese, con la marionetta di “Ubu re”), passa per la dicotomia Sade/Fourier inaugurata da Klossowski con “La moneta vivente”, proseguita con Barthes in “Sade, Fourier, Loyola” e continuata con “Economia libidinale” di J.F. Lyotard (l’idea della tensione che di recente mi sono accorto di aver espresso anche io con l’aforisma “Essere questa tensione”) e gli scritti di Baudrillard, che mettevano in crisi l’articolazione freudo-marxista processo primario/processo secondario, struttura/sovrastruttura… Parallelamente nella realtà avveniva che la produzione e l’intero processo economico venissero sussunti dalla complessità della macchina del capitale finanziario… L’impressione è che l’hardware non sia che un software più denso… una specie di “soft machine” che sembra quasi coincidere con la vita stessa… una “società liquida”, ma più ancora una liquidità (una sorta di pelle sintetica come quella che si applica sulle ustioni, liquido che all’occorrenza diviene membrana, più performante della pelle, pellicola dis-piegata e dis-tesa come quella descritta nell’incipit crudele di Economia libidinale di Lyotard), una liquidazione, alla quale in definitiva sembra non esserci scampo…
Io, per ovviare a questa incresciosa soluzione finale, totalitaria, solo apparentemente incruenta o piacevole finché dura, ho più volte proposto di opporre l’embolo al simbolo… il corto circuito, la resistenza (intesa fisicamente come tensione estrema, distribuita random) che brucia il circuito integrato, il processo di integrazione/dis-integrazione… ma per liberare cosa o chi? …un gioco che impedisca la “circonversione” di libido o interesse (…ma anche di incapaci), dove capita e a tutti i livelli…
…che impedisca con delle regole il “supplemento” di interesse e godimento ricavato dall'”inibizione”, dall’Aufhebung, dalla “Kastrazione”, dal soffocamento (nel senso dello smothering), dalla corsa coi sacchi, ecc… (interessante tutta la merceologia idiota che c’è in questa voce wiki).
(Se Baudrillard mi causò una profonda depressione a fine anni ’90, Lyotard, mentre lo leggo, mi sta facendo torcere lo stomaco come il nastro di Moebius…).
“Nel sistema del capitale la moneta è più generalmente ogni oggetto, in quanto merce, e dunque moneta, reale o potenziale, non è soltanto un valore convertibile in un processo universale di produzione, ma anche indiscernibilmente (non oppositivamente, dialetticamente) carica di intensità libidinale. Il sistema del capitale non è il luogo di occultamento di un preteso valore d’uso che gli sarebbe “anteriore” – questo è il romanticismo dell’alienazione, il cristianesimo – ma innanzitutto che esso è in un certo senso più che il capitale, più antico, più esteso, e infine che i segni detti astratti, suscettibili di calcolo e misura previsionale, sono in se stessi libidinali”.
“Credete forse che sia un’alternativa, o questo o morire? E che se si fa questo, se ci si fa schiavi della macchina, macchina della macchina, fottitore fottuto da essa, otto ore al giorno, dodici ore un secolo fa, è perché si è obbligati, costretti, perché si tiene alla vita? La morte non è un’alternativa a questo, ne è una parte, essa attesta che c’è del godimento nel questo, i disoccupati inglesi non si sono fatti operai per sopravvivere, hanno – tenetevi forte e sputatemi addosso – goduto dell’esaurimento isterico, masochista, non so che cosa, di resistere nelle miniere, nelle fonderie, nei laboratori, nell’inferno, hanno goduto nella e della folle distruzione del loro corpo organico che certo gli era stata imposta, hanno goduto che gli fosse imposta, hanno goduto della decomposizione della loro identità personale, di quella che gli aveva costruito la loro tradizione contadina, goduto della dissoluzione delle famiglie e dei villaggi, e goduto sera e mattina del nuovo mostruoso anonimato delle periferie e dei pubs.
E ammettiamo infine che esiste tale godimento, simile, in questo la piccola Marx vedeva chiaro, simile in ogni punto a quello della prostituzione, godimento dell’anonimato, godimento della ripetizione dello stesso sul lavoro, lo stesso gesto, le stesse entrate e uscite dal laboratorio, quante verghe all’ora, quante tonnellate di carbone, quante barre di ghisa, quanti barili di chiavate, non prodotte, certo, ma subite, le stesse parti del corpo utilizzate, escludendo tutte le altre, consumate, come la vagina e la bocca della prostituta istericamente desensibilizzate […].
(Da “Economia libidinale” di J.-F. Lyotard)
Il punto è che a furia di godere, non si gode più… e regna una certa assuefazione… un’insensibilità diffusa… niente fa più effetto… L’informazione che passa è metadone…
Capisco solo che la dicotomia (o la coppia complementare) schizofrenia/paranoia che attraversa pressoché tutti i plot narrativi contemporanei (compresi quelli della società, del diritto, dell’economia come dell’individuo) sia il vero equivoco… In realtà non c’è nessun complotto e nessuna sovversione… Sono tutti perversi, sado/masochisti… godono di esser vittime o di farne. Godono dei soprusi, delle “oppressioni”, di subire ingiustizie per rivendicare soprusi, di essere repressi per “emanciparsi”, per dedicarsi al pissing estremo… Finché si mantiene il pericolo psicotico, la zozzeria nevrotica borghese è garantita.
Che fare dunque?Non aver paura… di non essere più “soggetti” desideranti, riconosciuti, palingenetici? Non godere di avere in tasca o in borsa una tessera sanitaria, dei soldi e una carta d’identità? Né emozioni, né piaceri indotti, desideri insaziabili, dipendenze? dividuarsi? (lasciar) crinare tutto fino all’estremo per poter riaprire le danze con giochini nuovi? Non c’è altra possibilità…
Nel frattempo… non c’è niente da difendere o da salvare. Nessuna cosa, nessun soldato, nessun eroe, nessun sopravvissuto. Nessun corso di sopravvivenza.
Lasciate morire quel che deve morire… (eventualmente, dando una mano…).
D’ora in poi si dovrà parlare dei politici e dei protagonisti del mainstream mediatico come si conviene delle pornostar… e anche le “manifestazioni” dovrebbero adeguarsi… love parade estreme… Che puttanaio sia. Totale. Invece dei servizi d’ordine, frotte di masochisti che smaniano per i manganelli… cose così… IO – Stanotte leggevo il capitolo “La Forza” (di “Economia Libidinale”) in cui spiegava che non c’è verginità del lavoratore-prostituta, quella che desiderava la romantica “piccola Marx”… che la condizione di prostituzione da non poterne più è stata scelta in modo naturale e in modo libidinoso… la sua forza-lavoro (pompini, chiavate o quant’altro si faccia a lavoro) offerta come un dono selvaggio, senza alienazione… e soprattutto che questa forza è stata annichilita dalla “grande testa” (caput, capitale) del “corpo di macchina”, dal “soggetto sociale universale” (moneta vivente prostituibile in miliardi di modi… l’indifferente e inorganico equivalente della prostituzione universale… Lyotard insomma preconizzava la mostruosità dei “social network”… e mostrava quanto questo somigli al comunismo di Marx, presumibilmente, per i marxisti ostinati, sussunto dal Capitale…).
Mmmmm… fa un po’ vomitare, vero?
Diceva anche che il Capitale è il “di più” di produzione, il “produrre per produrre” (dunque libidinalmente, chiavare per chiavare, ecc… chiavata perversa, si dirà… costretta, esasperata, frigida… come certe macchine da sesso, di certi video, cui si attaccano le pornostar, pre-lubrificate per evitarle l’attrito, acclamate da una folla anonima e silenziosa di masturbati). Non lo scrivo con disgusto moralista… è quello che accade anche mentre leggi.
Anche questo mio dono di prostituzione gratuita al “soggetto sociale universale” che è un “social network” (comunque privato, con un magnaccia nerd dietro che raccoglie un po’ di sperma e soldi qua e là… ma non importa), anche questo mio dono, dicevo, fa parte del bordello generale… del godimento frigido… che inviterei a disertare… (ma questo lo dico io…) che si goda il giusto… senza sovra-eccitazione… costruendo (anche “se stessi” come) una macchina senza testa (una macchina che impedisca che ci sia una “testa” per ogni corpo de-capitalizzato).
LEI – Scegliere un’aurea mediocritas… non credo sia possibile. Secondo me non è tanto l’eccitazione o la perversione da limare, quanto l’ostinazione al raggiungimento (del successo) e la scala di valori che la compone…
IO – Sì, ma Lyotard poneva la questione: rispetto a quale “verginità” che non c’è? Senza dubbio poi i valori sono una bella ipocrisia, visto che sono pronunciati in un postribolo… Certamente religione ed etica del capitale, di cui tanto cianciano i magnaccia, sono da gettare nel cesso… La questione è per me come impedire che del nostro godimento si profitti… e senza per questo fare una scelta religiosa o sacrificale, ascetica… quindi sono d’accordo col “non è tanto l’eccitazione o la perversione da limare”… sarà una questione di gusti o orientamenti da trasformare? pervertendo le tante perversioni che si praticano?… Voglio dire… io godrei un sacco a vedere crollare tutto questo mondo-bordello… anche questo è un “di più”… ma lo è per me che vi vedo un’inibizione di forme di vita più libere… l’unica condizione per continuare a godere, senza la restaurazione della Grande Macchina del Capitale, in quel caso, sarebbe quella di costruire come si può una “macchina da godimento” contrattato in libertà con le piccole perversità altrui e proprie… tenute a bada… non intendevo la morigeratezza…
In altri termini: – A bello! Tu me voi fa scopa’ co’ 200 stronzoni… ma chi t’encula?… io chiavo chi decido io perché me piace e pe’ veni’… non me faccio scortica’ pe’ te!…
(e questo riferito al Capitale, che organizza la prostituzione in modo efficientissimo, come a qualsiasi sfruttatore di piccolo e medio calibro… Poi è da vedere se non ci sia comunque la tentazione di volere di più di quello che basterebbe affinché non vi sia di nuovo “sfruttamento”… dunque ancora sado-masochismo seriale… Insomma, una volta montata la “macchina senza testa” dei liberi godimenti, andrebbe suggerito: “Damose na carmata… no’ stamo ar circo!…”. E comunque non è detto che poi non ci sia il circo, lo stesso…).
Ah… senza contare che osteggiare “l’ostinazione al raggiungimento” del successo potrebbe tradursi nel fallimento completo… Nel lavoro della morte, nell’improduttività, che c’è (è prevista) anche nel bel mezzo del godere… In qualche modo, se non si accettano i valori espressi dai magnaccia, il sistema capitalista rende molto difficile vivere… costruisce botole, trappole, buchi neri…
“Può portare il soggetto a forti allucinazioni visivo-auditive definite come “di pre-morte”, con la percezione di ‘entità disincarnate’, apparenti visioni del futuro (flashforward) e vista del proprio corpo dall’esterno. […] C’è ragione di pensare che l’organismo sfrutti molecole con azione simile in condizioni d’arresto cardiaco per preservare l’integrità del sistema nervoso centrale e periferico”.
Stamattina, appena svegli, io e la mia fidanzatadiscutevamo dell’importanza degli umori (gli attuali neurotrasmettitori) per gli esseri umani… e ipotizzavo l’esistenza di un’endorfina estremamente potente, capace, in prossimità della propria morte di renderla più accettabile (un po’ come c’è l’orgasmo perché ci si riproduca, ecc…).
In realtà ancora prima si parlava dei residui dell’androginia fetale sul nostro corpo… Ci si poneva domande tipo: – Perché gli uomini hanno i capezzoli se non servono? – Perché hanno una sutura longitudinale sullo scroto?
Di conseguenza notavo una sorta di lavoro della morte al principio della vita, che uccide selettivamente alcune cellule, membrane, ecc… per forgiare le forme umane che riconosciamo come tali. Da lì poi si è passati a parlare della morte (cazzo, appena svegli!!!)… e dunque di religioni e umori (questi sarebbero la base animale, indifferente e “innocente” della costruzione corporea delle etnie, animica delle religioni e razionale dell’apparato militare… tripartizione di cui parlavamo invece ieri a cena…).
Tagliatore di morfemi, in particolare di prefissi, trasformò:
– l’individuo in dividuo
– il soggetto in getto
– il comunismo in munismo
– l’autonomia in anomia
Se Nietzsche filosofava col martello, egli usava piuttosto l’accetta (quando non erano rintracciabili, articolazioni, viti o bulloni per separare i giunti delle parole).
Munista, dividualista, inventore di nuove scienze quali la psicanalogica e l'a-linguistica, talvolta aggiungeva dei prefissi… prevalentemente “anti-”:
- anti-identitarismo
- anti-territorialismo
- anti-comunitarismo
- anti-universalismo
- anti-umanesimo